Il titolo prende spunto dal programma in onda in questi giorni sulla Rai “Nella mente di Narciso”, seppur non volendolo criticare direttamente – né il programma né la presentatrice -; ma, piuttosto, per suggerire una riflessione generale: siamo davvero convinti che questa caccia al narcisista da parte degli psicologi di oggi sia condotta in modo legale ed eticamente corretto? Siamo sicuri che esacerbare una caccia al narcisista ci faccia bene e sia utile a risolvere il problema?
La nuova “caccia alle streghe” da parte degli psicologi influencer
Ogni volta che un clinico o un operatore sanitario – qual è lo psicologo al pari dello psichiatra – giudica in pubblico negativamente un aspetto patologico della psiche, stigmatizzando con frasi e atteggiamenti moralisti una condizione umana o uno stato di sofferenza e malattia, questi compie un danno gravissimo e inaccettabile nei confronti degli altri clinici e della comunità a cui si rivolge, perché sta compiendo un mero abuso di potere. Non è dato agli psicologi, né ai medici e ai sanitari, dover infatti decidere chi è buono e chi è cattivo per sanzionarlo e penalizzarlo, né tantomeno dividere il mondo nei buoni e nei cattivi, assumendosi il ruolo di paladini del bene – figuriamoci della legge – in una qualche lotta contro il male. Gli psicologi che lo fanno sono gravemente agiti dal moralismo, dal razionalismo, dalla superbia e dallo stesso narcisismo, che li porta a censurare e voler rimuovere quelle parti più spontanee e incontrollabili della psiche. Essi così ischiando di ripetere quella famosa “caccia alle streghe” che animò il medioevo, quella furiosa e paranoica caccia al “maligno” che alberga in ogni individuo, nella propria Ombra. Così questa, ogni volta, viene proiettata sul cattivo di turno, ovvero colui o colei che incarnano meglio lo stereotipo corrente del cattivo. Nel medioevo era la donna – o, psicologicamente, il femminile – che si esprimeva in modo indipendente e che pensava liberamente, la donna che non aveva paura di manifestare l’ambiguità naturale delle proprie emozioni. Non possiamo negare che in parte, ancora oggi, facciamo questo nella nostra coscienza, ogni volta che rinneghiamo il potere occulto e incomprensibile della nostra psiche femminile, invece di rispettarlo. Ciò determina la scissione della psiche nelle sue varie parti, e la mancanza di cooperazione e coordinazione tra di esse. L’Io dell’inquisitore di turno si mette in mezzo alla psiche, alla vita e alla storia della gente, presumendo in modo giudicante, arrogante e ortodosso di poter stabilire chi o cosa è stato giusto o sbagliato, e quale strada o atteggiamento si doveva moralisticamente prendere tra le varie possibilità che un individuo aveva da scegliere. Ciò può sicuramente essere di interesse per la criminologia e la psicologia forense; ma il giudizio morale sull’individuo non può essere assolutamente dato in pasto alla massa come metodo di discriminazione, tantomeno in una tv o su canali social pubblici, facendo assumere che gli psicologi siano pertanto degli inquisitori moralisti, eroi ed eroine con tanto di fotografie patinate e copertine con grafica dalle becere tonalità di supereroi del bene e del male.
Esiste infatti una brutta moda, oggi, soprattutto da parte di quegli psicologi influencer presenti sui social e posseduti da un qualche complesso di potenza (o di impotenza): quello di voler diventare ricchi, famosi e avere successo come tuttologi moralisti e teatranti – nonché spesso veri e propri fenomeni da baraccone. Succede invece che questi “fenomeni virali” della psicologia si facciano ancor più pericolosamente portavoce della psicologia ufficiale e degli stessi psicologi come categoria professionale. Invece, sono e restano sempre singoli individui che abusano del loro ruolo professionale per affermare pubblicamente, in modo suggestivo e pervasivo, la loro psicologia personale, realizzando così non un bene comune, ma il loro bisogno personale – spesso proprio narcisistico – di riconoscimento, notorietà, successo, ricchezza e ammirazione. Come sappiamo, il codice deontologico degli psicologi italiani proibisce agli psicologi, come operatori sanitari, sia di farsi pubblicità che di esporsi pubblicamente come psicologi e con la propria faccia in modalità suggestive e seduttive, per affermare le proprie idee come presunte verità dogmatiche. Lo psicologo non può assumersi il ruolo di portavoce di verità dogmatiche o assolute, né deterministiche, perché la psicologia è sempre relativa e soggettiva. È del tutto assurdo che queste persone, che sono sempre operatori sanitari, finiscano poi in tv o in teatro, chiaramente promossi da chi li produce per fare audience a botta sicura, ma col risultato di rendere la psicologia una chiacchiera spicciola o una ricetta valida per tutti. Avete mai visto un medico fare video e programmi dimenandosi per affermare le proprie idee o per raccogliere likes e followers? Certo, come per gli psicologi, se lo vedreste potreste benissimo segnalarlo alle autorità competenti, perché la legge proibisce questi comportamenti ai sanitari. Perché invece la gente non lo fa, e gli stessi psicologi sono reticenti a farlo – nonostante per gli psicologi segnalare all’Ordine i colleghi e le colleghe che abusano del loro potere sia un obbligo deontologico di legge?
Il motivo è chiaro: seppur sappiamo bene che tanto la sanità quanto la malattia, sia quella mentale che fisica, non siano affatto da esacerbare o stigmatizzare, né tantomeno fenomeni da baraccone o da mercato su cui speculare – altrimenti il dottore sarebbe un mago o uno sciamano -, è tuttavia in atto uno sciacallaggio culturale, volto a sfruttare la diffusa paura per la presenza costante di un grave problema socioculturale irrisolto, quello del femminicidio e più in generale della violenza sulle donne. Trasformando un caso clinico in un fenomeno mediatico virale, lo psicologo da baraccone cerca di influenzare l’opinione pubblica come oggi si usa fare. Nel caso del narcisismo ciò avviene soprattutto da parte dei detrattori della cultura della diversità, della tolleranza e della solidarietà, della libertà di pensiero e di espressione, allo scopo di spostare il problema della violenza di genere – che sappiamo benissimo essere determinato dagli stereotipi culturali di genere, come quelli ordinati dal cattolicesimo e dal romanticismo – su una singola classe di individui malati, pergiunta creando un altro stereotipo di genere, assolutamente falso e altrettanto pericoloso: quello del maschio medio come potenziale narcisista femminicida.
Senza almeno una perizia, una diagnosi, una analisi accurata della storia clinica, un racconto soggettivo del proprio vissuto da parte del paziente, e chiaramente il suo consenso informato, la psicologia del singolo caso clinico non può essere fatta né diffusa o utilizzata pubblicamente come esempio per tutti, perché ogni caso è un caso a sé stante. Per questo, a noi sanitari è invece permesso fare pubblicamente informazione e prevenzione su problematiche psicologiche di interesse; ma, anche qui, tuttavia la fondamentale differenza col blaterare presunte verità e giudizi su malati e pazienti con modalità acchiappalike e acchiappautenti, è appunto che si deve sempre essere invece probabilistici e non dogmatici, umili e rispettosi del dolore e della sofferenza degli individui. Non si può stigmatizzarli, né patteggiare in modo dogmatico soltanto per una parte del problema – nel caso specifico, il narcisista: questi infatti è “paziente”, malato e sofferente come quella che si designa sua vittima, e il clinico non può trasformarsi in un giudice né in un boia. Ma come siamo invece arrivati a tutto questo, e persino pubblicamente? Quando abbiamo deciso di fare un’eccezione per i narcisisti alla nostra necessaria imparzialità, accoglienza e sensibilità psicologica – mentre ad esempio non siamo più tanto interessati a trattare male gli schizofrenici o i serial killer, anzi abbiamo iniziato già da tempo a empatizzare con loro?
A proclamare questo nuovo stereotipo sono proprio gli psicologi influencer. Sono loro che stanno influenzando la massa occidentale con questo stereotipo abusando del proprio potere sanitario per nascondere la propria ferocia inquisitoria, il proprio bisogno narcisistico e concupiscente di riconoscimento, di notorietà e di potere. Perché proprio gli psicologi più dei sociologi, degli psichiatri o di chiunque altro? Perché sappiamo tutti che gli psicologi sono una categoria a rischio, da sempre bistrattata e sottopagata rispetto agli altri medici e professionisti, quelli che fino a qualche tempo fa gridavano sugli stessi social “non siamo tutti un pò psicologi”! Come nuova inquisizione scientifica, la psicologia diagnostica utilizzata moralisticamente separa così il mondo nei “sani” e nei “malati di mente” come facevano i cattolici determinando con le proprie regole arbitrarie nei propri concili chi doveva essere buono e chi invece era cattivo, chi faceva bene e chi doveva aver peccato. Assurgendo la psicologia che hanno studiato a nuovo credo, e proiettandoci dentro le proprie ossessioni, questo tipo di psicologi fanno accoliti e adepti in cerca di riscatto sociale e orgoglio identitario, promettendo alle masse di donne e di uomini impauriti il potere di poter giudicare le persone e di potersi con ciò sentire migliori di quello che sono, quello stesso potere che essi ricercano e di cui abusano col loro giudizio. Così gli psicologi influencer non aspettano altro di spiattellare sui social il loro caso clinico che spiega tutto il mondo, facendoli sentire potenti di aver contribuito a disinfettare il mondo dal peccato. Come nuovi puritani, le loro personali credenze morali, visioni ed esperienze diventano atti strumentali di mero odio e stigmatizzazione sociale. Alcuni psicologi influencer si mettono addirittura a interpretare sui social, come attori satirici, i loro pazienti in siparietti e scenette demenziali, banalizzando la loro sofferenza e facendo scempio in un sol colpo di tutti i principi etici della psicologia.
Manca negli psicologi, infatti, un “giuramento di fedeltà” ai principi etici dell’anima e della sua cura, come quello di Ippocrate per i medici. Nonostante gli psicologi siano obbligati a conoscere a menadito il codice deontologico e a rispettarlo, continuo a constatare negli stessi colleghi professori in psicologia che troppi di essi proprio non sanno o non ricordano quasi niente del codice e di questi principi, e con i loro atteggiamenti accentratori manipolano la professione per i loro scopi personali. I principi etici per cui dovrebbe sempre agire uno psicologo, come ogni sanitario sono 1) il bene del paziente prima di tutto, 2) il principio di non-malignità e l’astensione dal causare danno o offesa ai pazienti, 3) il segreto professionale e la riservatezza delle informazioni del paziente, che non possono essere mai spiattellate così sui social e in tv senza il loro esplicito consenso, neppure se essi sono assassini sotto processo; 4) l’esercizio della professione con dignità e purezza etica scevra da ogni giudizio e pregiudizio morale, rispettando i diritti umani e la libertà di espressione della diversità di ogni persona. Per fare prevenzione e informazione su questo fenomeno di indottrinamento sociale, forse ci vorrebbe allora una serie tv o podcast che parlino degli psicologi come fenomeno virale, delle loro storie e psicologie personali applicate scelleratamente in forma proiettiva e giudicante sui pazienti, dove magari si svisceri il modo in cui plagiano le persone con il potere suggestivo delle loro idee facili e preconcette, e si ricostruiscano i loro personali tratti narcisistici…. Diffidate da chi, in seduta come in pubblico, abusa del proprio ruolo esprimendo giudizi morali netti sulla gente: la psicologia e la psichiatria non sono affatto questo.
Ogni psicologo o psicologa che con superbia e arroganza si mette nel pulpito di chi giudica, ad esempio, i narcisisti un male da estirpare dal mondo, in verità contribuisce al dissesto generato dall’utilizzare una verità dogmatica e stereotipica, tuttavia culturalmente condivisa, per guadagnare consensi, crediti e ammirazione personale. Poter portare in pubblico questi casi clinici come propri, atteibuendosi la facoltà di discernere questi temi psicologici cruciali, trattando i pazienti come altrettanti fenomeni da baraccone, e vedere questi psicologi influencer che stanno lì invasati del potere di parola e di giudizio che gli é stato conferito in pubblico, ebbri della luce dei riflettori, rappresenta la tipica situazione di ammirazione e affermazione sociale che i narcisisti ricercano. È allora chiaro perché questi psicologi sono tanto moralisti nei confronti dei narcisisti: perché si sa, ognuno ce l’ha con la propria Ombra, e giudica e combatte negli altri quello che di sé non riconosce. Il mio rammarico è per la superbia che vedo troppo spesso in queste persone, non l’umiltà e la sensibilità tipica dello psicologo, ma quella arroganza poliziesca di giudicare e inveire contro i presunti malati di narcisismo, parlandone con razzismo e trattandoli come rottweiler da abbattere perché divenuti folli o assetati di sangue, come si parlava e si trattavano i pazienti psichiatrici fino all’inizio del secolo scorso. Addirittura in un video pubblicato su YouTube lo psicologo fenomeno virale di turno dice che sono “coglioni”, “stronzi”, “miseri falliti” e tutta una serie di volgari giudizi personali, pronunciati pergiunta con un forte accento pescarese a segnalare un certo provincialismo gretto e saccente. Un linguaggio e un atteggiamento “da baraccone” non può assolutamente essere accettato da parte di un clinico perché oltretutto offende, oltre al paziente, la categoria degli psicologi, infangandola di odio, ignoranza e qualunquismo.

Narciso non ha nulla a che vedere col narcisismo patologico, né il narcisismo ha a che vedere col femminicidio
Per capire la psicologia di Narciso, occorre a questo punto rivalutare il ruolo di Eco, ovvero quello della vittima, la controparte di Narciso che lo istituisce a carnefice. Per poterlo fare, occorre innanzitutto chiarire una volta per tutte che Narciso non è il narcisismo patologico, e il femminicidio non ha nulla a che fare con l’archetipo di Narciso e il suo mito. Su Narciso e la necessità di distinguerlo, come processo individuativo dell’autostima, da quel “narcisismo” inteso come pericolosa patologia nelle sua duplice modalità covert e overt, ho già scritto un articolo (puoi leggerlo qui). Qui ricordiamo ancora che Narciso, da parte sua, per sé e al di fuori della modalità relazionale narcisistica, non è una condizione affatto patologica, ma una parte fondamentale della psiche umana: quella sana autostima e quel necessario amore per sé stessi che ci permette di vivere una vita dignitosa e, nel pieno delle nostre potenzialità, di “diventare noi stessi”. Narciso è bellissimo per natura, per volere degli dèi; egli non ne ha colpa alcuna, tantomeno si cura della sua bellezza. Semmai, gli dèi con il dono della bellezza gli hanno dato anche un limite, quello di non doversi mai specchiare e cercare di vedere il suo volto, pena la morte. Quindi si continua a tacciare Narciso di peccati da lui mai commessi, e occorre ripristinare l’idea originaria di una bellezza inconsapevole di sé a protezione di sé stessi. Il limite di non potersi mai conoscere veramente in una propria bellezza “oggettiva” può chiaramente essere visto come una “maledizione” nel nostro bisogno di conoscerci ed essere sicuri di noi stessi: sono veramente “bello” o “bella” come gli altri dicono? No, noi umani non potremo mai esserne certi. Ciò perché altrimenti l’autostima sarebbe scambiata per un mero fatto oggettivo e non più un vissuto soggettivo; essa si baserebbe su un qualche canone estetico e non più, appunto, su una “stima di sé stessi”, sulla fiducia e sull’amore di sé al di fuori di un giudizio esterno. Nel momento che noi, infatti, ci specchiamo, nella riflessione sulla nostra immagine il soggetto diviene oggetto, entriamo nel giudizio su quell’immagine e ci innamoriamo di noi stessi, oppure ci disprezziamo e consideriamo “brutti”, basandoci piuttosto sull’immagine di bellezza considerata oggettiva, e sulla conformità estetica all’ideale corrente di bellezza, che sul fondamentale vissuto interiore e intimo di piacere e confortevolezza dato dalla soddisfazione e accettazione di sé, in poche parole “moriamo” perché perdiamo il senso identitario di noi stessi e la nostra immagine si scinde dal nostro corpo.
Occorre ricordare anche che Narciso quindi se ne stava benissimo per conto suo a cacciare cervi – non “cerve” o “donne-cervo” come qualche psicologo influencer millanta credendosi illusoriamente acuto e intelligente. Narciso non va mai, ma proprio mai, a caccia di donne, il mito racconta esattamente l’opposto! Per essere bravi psicologi occorre non manipolare né falsificare le storie, i miti, i risultati delle ricerche scientifiche, le diagnosi, i dati empirici ecc. proiettandoci i propri contenuti rimossi. Narciso non è un cacciatore di donne, e non caccia perché si sente vuoto – perché avete bisogno di inventarvi scienza e miti a vostro piacimento? Fatevi questa domanda. Forse perché la realtà è troppo semplicemente cruda da poter essere accettata: Narciso è anche lui una vittima, la vittima di una maledizione, e non è il carnefice che voi vorreste per tenere pulita la vostra coscienza moralista. Oggettivamente, cacciare cervi significa vivere come Artemide, la protettrice e cacciatrice dei cervi. Significa vivere in modo libero e indipendente dagli altri, e questo uno psicologo che si propone come archetipico dovrebbe saperlo riconoscere. L’unica colpa di Narciso – quella che si ripete sia nel mito etero di Eco, che in quello omosessuale di Aminia – è di essere indifferente, pergiunta contrario e sprezzante, di fronte all’amore altrui – ovvero il non prendersi la responsabilità del potere della propria bellezza e del desiderio altrui suscitato dalla propria esistenza. Allora, Nemesi, la dea Vendetta, vendica la morte degli amanti insoddisfatti, facendo finalmente specchiare Narciso e facendogli riconoscere la sua reale bellezza, quella che lo raggiunge nella riflessione sulla propria immagine come attraversamento e raggiungimento del proprio aspetto ninfico e femminile. Possiamo quindi dire che il “narcisismo di Narciso” sia ben diverso da quello che la psichiatria gli vuole ascrivere come colpa, giacché si tratti particolarmente dell’indifferenza verso le reazioni degli altri a questa propria “bellezza”, ovvero al lato oscuro del potere che in noi genera un’eccessiva stima e considerazione di sé: l’astinenza, la preservazione, il disinteresse per gli altri. Soprattutto se là, su quell’immagine allo specchio, noi riconosciamo l’altra parte di noi stessi, ovvero il femminile rimosso, la ninfa Eco, che reintegriamo attraverso la “morte” del nostro punto di vista unilaterale ed egocentrico, attraverso la riflessione.
Soltanto a questo punto, semmai, c’entra infatti il femminicidio – ma non quello letterale, bensì quello immaginale: nei suoi miti, Narciso infatti non uccide mai Eco, né Aminia – che invece si uccidono da soli! Narciso sconta allora la pena di non aver considerato la verità palese che l’altra persona, l’amante per l’appunto, gli porta, ovvero l’immagine di sé riflessa nel suo opposto, la parte femminile rimossa di sé assieme al sentimento. So che questo è un passaggio ben più difficile da capire rispetto a quello letterale, ma il mito parla chiaro, e non dobbiamo cercare di manipolarlo a nostro piacimento per continuare a rimuovere verità più difficili, meno vendibili e più scomode da accettare. Se tutto questo attribuire colpe a Narciso non è altro che un neopuritanesimo degli stessi psicologi in primis, occorre evidenziare il fatto che il femminicidio non è mai un atto letterale specifico del narcisista, ma più della psicopatia. Nella diagnosi di disturbo narcisistico di personalità occorre in questo caso includere la diagnosi differenziale di psicopatia, un altro disturbo di personalità caratterizzato da comportamento antisociale e distacco affettivo ed interpersonale. Essere narcisisti non significa affatto essere anche assassini psicopatici: nella letteratura e nella pratica clinica il Narcisismo viene spesso confuso con i tratti della Psicopatia (o Disturbo Psicopatico di Personalità – DPP), che a sua volta viene ogni tanto confusa con il Disturbo Antisociale di Personalità (DAP), e può persino accadere che i due termini vengano erroneamente utilizzati dagli psicologi come sinonimi. Così succede che si inizia ad associare e scambiare il narcisismo con l’essere assassini e con l’essere anaffettivi, solo perché possono esistere varie comorbidità tra un disturbo di personalità e un altro.
Dal punto di vista dei sistemi di classificazione internazionale dei disturbi mentali, il Disturbo Psicopatico di Personalità è stato incluso nella sezione III dei “Modelli Emergenti e Misure” del DSM 5 (APA, 2013). Il DSM IV-TR (APA, 2000) includeva soltanto il Disturbo Antisociale di Personalità. L’attuale concettualizzazione della psicopatia è stata influenzata dagli studi di Cleckley (The Mask of Sanity, 1941), il quale elencò i criteri diagnostici che potevano essere utilizzati per identificare le persone con questo disturbo di personalità. L’analisi fattoriale ha poi evidenziato due fattori: il primo corrisponde alle caratteristiche tipiche della psicopatia, ovvero uno stile arrogante e menzognero con un distacco emotivo e un deficit di empatia; il secondo fattore fa riferimento invece alle condotte associate al primo fattore, ovvero l’impulsività e l’antisocialità caratteristiche della criminalità. La psicopatia e il narcisismo patologico sono quindi costrutti distinti, con la differenza principale nel fatto che lo psicopatico è completamente amorale e indifferente al destino altrui, quindi capace di crimine e assassinio; mentre il narcisista, sebbene manipolativo, necessita dell’ammirazione altrui per il proprio senso di grandiosità, è sintonizzato empaticamente sull’altro e quindi non commetterebbe mai un possibile errore agli occhi altrui. Quel narcisismo violento che svolta in un crimine, rappresenta allora una forma ben più grave del narcisismo patologico, perché combina tratti narcisistici con un’altra componente, quella antisociale, sadica e priva di rimorso ed empatia, caratteristica della psicopatia.
I tratti più “oscuri” della personalità, come la psicopatia, il narcisismo, il machiavellismo, sono ben diversi tra loro, ma hanno in comune un tratto tipico di ogni individuo, quello che viene considerato il “maligno”, e che può scattare in qualsiasi momento della vita: un estremo egoismo. Recentemente chiamato “fattore D”, è definito come la tendenza generale a massimizzare la propria utilità individuale a discapito degli altri. Le persone finiscono per esacerbare questo tratto quando iniziano a perseguire i propri obiettivi e interessi senza considerare il prossimo, fino ad arrivare al punto di provare piacere nel ferire e umiliare gli altri, come senso di riscatto di sé stessi e di potere. I comportamenti affermativamente violenti che ogni individuo è capace di mettere in atto a scapito degli altri, quelli che comunemente consideriamo maligni e cattivi, sono poi giustificati da una serie di credenze, anche ideologiche e culturali come gli stereotipi e i pregiudizi, a cui le persone fanno riferimento per prevenire sensi di colpa, vergogna ed emozioni simili. Un narcisista o uno psicopata che attingono a questa parte comune a ogni individuo chiaramente finiscono per inflazionarla in modo estremo e pericoloso. Ma la violenza e l’egoismo sono caratteristiche che fanno parte dell’essere umano, ed è sbagliato perseguirle giudicandole moralisticamente come psicopatia o narcisismo. Qui sopraggiunge il ruolo di Eco, sottovalutato perché appartenente allo stereotipo “buono” del femminile, quella gentilezza, empatia e dedizione all’altro che vengono ancora considerati stereotipicamente come tipici delle donne.

Eco: la “vittima” non di Narciso, ma di Era
Nella psicologia sistemico-relazionale, il “paziente designato”, o “paziente identificato”, è una persona all’interno di un sistema che diventa il “portavoce” di un disagio più ampio, manifestando sintomi che rappresentano la sofferenza dell’intero sistema, e non solo un problema individuale o specifico. Questo concetto, sviluppato all’interno della teoria dei sistemi ispirata da Gregory Bateson, indica che il problema non risiede solo nell’individuo, ma è un sintomo della disfunzione dell’intero sistema, e la cura dovrebbe quindi coinvolgere tutti i suoi membri. Il paziente designato non è una vittima, ma un individuo scelto inconsciamente dal sistema per farsi portavoce di esso, per manifestare i conflitti presenti al suo interno, fungendo però da diversivo o da richiesta di aiuto. La reale causa del problema viene così spostata su di esso e nascosta agli occhi di tutti, anche del paziente designato stesso. La sua psicopatologia (che può includere disturbi fisici o emotivi) è una manifestazione di un problema generale all’interno del sistema di appartenenza: la designazione avviene a un livello profondo e inconscio, spesso verso il membro che ha meno potere nel gruppo, come le donne nella società occidentale.
Il mito di Narciso ci narra anche di Eco, una ninfa dei monti dal carattere dolce e dalla voce soave, che amava parlare con gli altri e raccontare di ciò che sapeva delle persone che incontrava, e infondeva dolcezza al cuore di chi la ascoltava. Proprio per questo dono o sua naturale caratteristica, Zeus la incaricò di intrattenere sua moglie Era mentre lui si dedicava ai suoi incontri amorosi. La dea Era, gelosa e vendicativa, si accorse dell’inganno che, secondo lei, la ninfa Eco le aveva ordito – ma attenzione, non era stato forse Zeus, suo marito? -, e la punì togliendole l’uso della parola, condannandola a ripetere solo l’ultima parola che le veniva rivolta o che udiva. Eco risulta quindi essere quel femminile spontaneamente loquace, empatico, socievole e comunicativo, che giova tanto agli esseri umani, ma che viene punito dagli dèi se utilizzato “contro di essi”. Ovvero, rappresenta la comunicazione empatica ed emotiva che, quando utilizzata strumentalmente per sedurre, manipolare, convincere o intrattenere contro la natura delle persone o degli eventi, rimane fine a sé stessa, fa soltanto l’effetto di un “eco” di ciò che dice o afferma l’altro.
Così conciata, un giorno Eco incontrò il bellissimo Narciso e se ne innamorò follemente. Prese a seguirlo passo dopo passo senza riuscir mai a proferire parola che non l’eco di quelle di Narciso. La sua costante e silenziosa presenza riflessiva infastidì Narciso, che per farle comprendere che essa non gli era gradita, compì atti che indicavano la sua noia e impazienza. Eco ne soffriva terribilmente; piangeva e lacrime di dolore le solcavano le guance. Ma Narciso non si commosse, e impietoso le gridò di lasciarlo in pace. Poi, furioso si allontanò a grandi passi e scomparve nell’ombra fitta degli alberi. Eco rimase sola e a lungo si disperò nel bosco. Quando ebbe esaurite tutte le sue lacrime e finalmente comprese che mai più lo avrebbe rivisto, si nascose in una grotta e lì si consumò dalla passione, fino alla morte. Il suo corpo scomparve e di lei restò la sua essenza, quella voce spirituale che tra i monti ripete le ultime parole che sente pronunciare. Appurato quindi che non fu affatto Narciso a ucciderla, non ci resta che valutare Eco nel suo ruolo di vittima. La causa della disperazione e della morte della ninfa, è infatti l’accanimento della sua stessa passione struggente, poiché non corrisposta. Come abbiamo visto, la mancata corresponsione dell’amore avviene da parte di Narciso, e in ciò sta la sua mancanza di empatia per Eco, che viene poi punita dagli dèi; ma ben prima di Narciso, Eco è già stata punita dagli dèi per la sua loquacità impudente, e ciò significa che la mancanza di empatia di Narciso deriva dall’incapacità di comunicare di Eco, che infastidisce Narciso perché non comprende cosa dice e cosa vuole da lui la ninfa.
Eco è allora il “paziente designato” per esprimere un problema più ampio del modo di comunicare che abbiamo nel nostro sistema di relazionarci, ovvero quell’incomunicabilità dell’amore e dei sentimenti che è a principio di ogni male sociale. Per questo si è pensato ai corsi di comunicazione empatica, e per questo nelle terapie di coppia o di gruppo si riscontra sempre il problema fondamentale dell’incomunicabilità di ciò che sentiamo. Ma attenzione: in principio Eco era la dea della comunicabilità! La Eco punita dagli déi e lasciata soffrire da Narciso è l’impudenza comunicativa, la mancanza di umiltà nel voler, al contrario, straparlare di sé stessi per mostrarsi migliori, per farsi grandi e più belli, che è un aspetto stesso del narcisismo. Ciò non accade solo nei narcisisti quando straparlano di sé stessi, ma soprattutto, come in Eco, nelle loro “vittime”: spesso sono proprio le persone Eco che continuano a parlare di sentimenti di fronte alla mancanza di empatia dell’altro, straparlano di amore, lealtà, fiducia, responsabilità, passione, dedizione, sacrificio, e così via sciorinando tutto il loro moralismo amoroso senza tenere conto del fatto che l’altra persona non accoglie niente e gli rimanda tutto indietro; ed è proprio lì che finiscono per annullarsi e diventare “solo eco” per l’altro, ovvero di finire a non aver voce e a dover accogliere loro quel che l’altro gli dice. L’incomunicabilità dei propri sentimenti è endemica della società e della cultura occidentali, specialmente in quella puritana, ovvero nelle culture caratterizzate dalla forza presenza del pensiero ortodosso cattolico e del suo moralismo. È il moralismo di Era, il suo puritanesimo, infatti, a determinare archetipicamente la volontà di potenza e di dominio morale sugli altri attraverso il moralismo. Era è la giustiziera morale vendicatrice che, molto più pericolosamente rispetto al naturale femminismo di Artemide, è stato inflazionato dalla cultura della Chiesa. Stiamo ancora scontando gli effetti del moralismo mariano e patriarcale sul nostro modo di comunicare ciò che sentiamo, e gli psicologi influencer sfruttano populisticamente il potere del giudizio di Era per reiterare questo moralismo e con esso il potere che ne deriva, che purtroppo è ancora culturalmente vincente. Eco è l’ombra di Era, quell’aspetto che Era stessa rimuove da sé stessa: la sua ferocia, la sua violenza devono cancellare la dolcezza ingenua e adulatoria della comunicazione di Eco, quella che lei, mai detta mater, non si permette.
La vittima dell’amore è un carnefice nascosto
Non esiste un’altra condizione umana in cui si accetti, come nell’amore, di sopportare di soffrire per qualcun altro. Il grande psicanalista italiano Aldo Carotenuto, che fu mio professore universitario, ha scritto Eros e Pathos (Bompiani, 1987), un libro bello e acuto sulle verità umane che mette a nudo l’amore. Come nell’opera di James Hillman, l’incontro d’amore è da lui reso alla realtà psicologica di funzione di iniziazione della coscienza alle realtà dell’anima, laddove noi possiamo vivere ed esperire la sofferenza soltanto se abbiamo la continua percezione sia del desiderio del possesso, che della perdita dell’altro. Scrive Carotenuto:
“Direi allora che stranamente ci sono delle persone “destinate” a scegliere situazioni nelle quali l’amato ha sempre la possibilità di fuggire. Torniamo al concetto di elusività, ma in questo caso dall’angolazione di chi vive costantemente nella paura di perdere chi ama. È come se queste persone sentissero di vivere soltanto se amano in questo modo. E qui si inserisce un altro tema a cui ho già accennato: un essere umano che ama il potere non può vivere in questo stato; ecco perché “potere” e “amore” non vanno mai d’accordo. Un uomo, accecato e soddisfatto dalla volontà di potenza, non può amare in modo sconvolgente perché questo implicherebbe l’essere assorbiti completamente dal sentimento, dato che l’altro può essere perduto in ogni istante” (pag. 133).
Eco e Narciso sono legati assieme in questa dinamica di potere, dove Narciso cerca di eluderlo fuggendo, e dove Eco lo ricerca costantemente attraverso la sua sofferenza. È questa chiaramente una dinamica disfunzionale e morbosa, ma perché si crea così frequentemente? Scrive ancora Carotenuto:
“La possessività ci fa confrontare con il nostro lato oscuro, ed è per questo che vale la pena di essere vissuta: nessun uomo può definirsi tale se non ha affrontato tale esperienza, che più delle altre lo mette di fronte alla sua mediocrità, alla sua nullità. In quel momento vengono evocati i “demoni” della nostra incapacità a sopportare una possibile perdita. La dipendenza ripropone la mancanza dell’oggetto primario, ossia del primo amore della nostra vita, nel quale avevamo riposto una fiducia assoluta. Infatti, noi non possiamo non credere a chi ci ha dato la vita, e veniamo anche allevati in questa illusione; nel cieco abbandono alle persone che ci hanno messo al mondo” (pag. 138).
Nell’abbandono, Eco si ritrova a fronteggiare questa grande perdita primaria, come quella della sua stessa voce, una perdita che non abbiamo mai risolto nella nostra vita e che costituisce l’incapacità di comunicare il proprio bisogno d’amore. Lo ripetiamo: non è Eco ad abbandonare Narciso e lui a ucciderla come nel femminicidio, quella è la psicopatia. Piuttosto, nel narcisismo primario, nessuno ha mai realmente accettato di essere stato abbandonato, e noi, disperatamente, in ogni legame sentimentale, vogliamo recuperare quella fiducia che un avvenimento nel corso della nostra infanzia, forse, ci propose e ci tolse. A volte siamo così angosciati da questo bisogno di fiducia totale, dice Carotenuto, che siamo spinti a fantasticare di essere abbandonati da chi amiamo.
Nell’umiliazione di Eco c’è dunque un riferimento diretto al problema dell’Ombra, come parte di sé rifiutata o rimossa, che viene messa in evidenza e giudicata negli altri. Le donne, i bambini, le minoranze e i “diversi” rispetto alla cultura e gli stereotipi dominanti sono le categorie sociali che, nel corso della storia, hanno subito le maggiori umiliazioni. Nell’infanzia, poi, le umiliazioni sono sempre frequenti, addirittura spesso contrabbandate come forma educativa. Ad esempio, intere generazioni sono cresciute all’ombra del pregiudizio che l’umiliazione, in un modo o nell’altro, è necessaria per diventare uomini o donne. Nel cristianesimo l’umiliazione diventa una forma di trionfo del debole: “Chi si umilia sarà esaltato”, “Gli ultimi saranno i primi”, “Beati gli umili e i poveri di spirito perché vedranno il regno dei cieli”. L’umiliazione di sé stessi è diventata la virtù dell’umiltà. La psicologia di chi si umilia è complementare a quella di chi umilia un suo simile, e in entrambi i casi è analoga a quella di chi pratica il potere, costellando le parti in gioco di questa pericolosa dinamica relazionale. E davanti al silenzio, come strumento di umiliazione o di potere, ci si trova “puniti” della nostra incapacità di comunicare le nostre emozioni e i nostri sentimenti, oppure lo si utilizza come fuga dalle proprie responsabilità affettive. Altrove, in “Amare tradire” (Bompiani, 1994), Carotenuto scrive:
“Il principale assioma attorno a cui ruotano le ricerche dei relazionali è quello secondo cui “è impossibile”, nell’interazione umana, “non comunicare”. Di conseguenza anche il silenzio è una forma di comunicazione, una forma differita come lo sono i doppi messaggi, le comunicazioni oblique, per negazioni ecc. La loro caratteristica però è di essere indecifrabili e di lasciare il ricevitore dei messaggi in uno stato di incertezza nei confronti delle proprie percezioni, che potrebbero essere corrette ma che vengono continuamente invalidate dall’ambiguità di queste forme di comunicazione. E il tipico linguaggio dei genitori schizogeni, che pongono al figlio dei conflitti di interpretazione talvolta irrisolvibili. Tutti gli esseri umani vengono prima o poi alle prese con lo shock dell’ambivalenza, l’amore-odio della madre, del padre, della fidanzata ecc. Ma quando questa ambivalenza diventa il pane quotidiano, costantemente posto e imposto al bambino, si struttura un disagio della personalità di difficile rimarginazione. […] In termini junghiani potremmo dire che i disturbi della comunicazione e della relazione si strutturano anche a seguito della proiezione di contenuti inconsci, in particolare dell’Ombra. Quando all’interno di una famiglia o di una dinamica di coppia si costringe un polo a un qualche ruolo negativo, ed egli “accetta” questo ruolo, è in atto una proiezione dell’Ombra, e l’accoglimento di essa da parte dell’altro. Spessissimo il partner “malato” assorbe l’Ombra dell’altro partner così come un figlio “pazzo” spesso si è, ed è stato, caricato dell’Ombra di tutta la famiglia” [il “paziente designato”, nota mia] (pag. 117-118).
Carotenuto allora svela che il ruolo della “vittima” ricalca quello del “traditore” o del “carnefice”, come Eco è la controparte dello stesso Narciso: l’esperienza del tradimento e dell’abbandono ci rimandano a ritirare la proiezione della nostra Ombra, e a uno di quei processi fondamentali della nostra vita psichica che é l’ “integrazione della propria ambivalenza”. Scrive Carotenuto in “Eros e Pathos”:
“Vorrei ancora sottolineare il fatto che questa particolare esperienza non riguarda soltanto il portatore dell’aspetto peggiore, e cioè chi inganna, ma anche il tradito, il quale ha inconsapevolmente messo in moto dei meccanismi tali per cui il partner ha preso sulle proprie spalle tutto il male, tutta la negatività della situazione. Attraverso questo vissuto noi andiamo a toccare aspetti molto dolorosi della nostra vita, che sono legati alla coesistenza dell’amore e dell’odio, presenti in ogni rapporto. Le nostre possibilità di fronte a una simile evenienza sono tante, e penso anche a opportunità propulsive, di recupero del rapporto, in modo che esso si illumini di una luce diversa. Ma c’è anche un’altra evenienza, la conclusione. Che cosa significa la fine di un rapporto? Significa soprattutto una destrutturazione, il crollo di un assetto psicologico che avevamo lentamente costruito” (pag.143).
La vittima accetta finalmente di essere il carnefice di sé stessa, perché desidera inconsciamente essere quel carnefice di cui si era illusoriamente innamorato. Carotenuto argomenta sapientemente questa verità, che non significa affatto implicitamente colpevolizzare le donne, perché abbiamo visto che vale anche il contrario, per cui anche il carnefice risulta essere vittima della propria maledizione, quella di non poter conoscere sé stesso. Eco non è la donna nel rapporto, e Narciso non è l’uomo: sia Eco che Narciso sono le componenti ambipresenti nell’ambiguità e ambivalenza degli atteggiamenti di entrambi i partners, polarità di un continuum disfunzionale rappresentato dall’incomunicabilità dell’amore. Da una parte, Narciso, ovvero il chiudersi nella propria autostima che diventa eccessiva e non permette più di aprirsi alla relazione e alla diversità dell’altro; dall’altra parte, Eco, ovvero il rivolgersi completamente all’altro e il riporre in esso tutta la stima di sé, senza concedersela se non postulandolo nel potere e nel “possesso” del suo amore e della sua attenzione. Eco è Narciso, Narciso è Eco: la scissione tra i due componenti di questa modalità disfunzionale di comunicazione nella relazione, che è sempre “a due” e mai unilaterale o univoca, è dovuta e reiterata dagli stereotipi di genere e dal nostro moralismo.
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