PSICOLOGIA ARCHETIPICA

Cos’è e come si svolge la psicoterapia

La Psicologia Archetipica è un movimento culturale innovativo che si è posto il compito di giungere a una ‛revisione’ di tutta la psicologia, la psicopatologia e la psicoterapia. È quindi una nuova psicologia, derivata dalla Psicoanalisi di Sigmund Freud e soprattutto dalla Psicologia Analitica di Carl Gustav Jung, il più grande psichiatra della storia. La Psicologia Archetipica trova una sua concettualizzazione e la sua massima espressione grazie a James Hillman, geniale erede della psicologia junghiana e uno dei maggiori critici della cultura e del mondo contemporaneo. Essa volutamente si collega con le arti, la cultura e la storia della società, le quali traggono origine dall’immaginazione come processo fondamentale dell’attività della psiche.

Dobbiamo riconoscere l’atto dell’immaginare, infatti, come base poetica della psiche e del farsi stesso dell’anima, per cui tutto quanto accade nel mondo è prodotto dall’anima e attraverso l’immaginazione psichica. Secondo Hillman, l’anima è fatta della sostanza del mito e del sogno, una sostanza “divina” ovvero costituita dalle forze ed energìe autonome che dalla psiche governa l’uomo e il mondo, e soltanto attraverso il riconoscere questa sostanza dell’anima e permettere il suo farsi nel mondo, noi possiamo conoscere noi stessi e cominciare a “guarire” l’anima. Il “fare anima” è dunque una psicopoiesi attraverso cui in terapia avviene una re-immaginazione di sé stessi e del mondo come re-animazione della psiche culturale e il recupero dell’anima stessa.

La psicoterapia archetipica è anche analitica perché parte dalle principali tecniche della psicoanalisi e della psicologia analitica junghiana, come l’analisi del sogno, l’amplificazione dei simboli e delle immagini archetipiche, e l’immaginazione attiva. I riferimenti di base della pratica terapeutica possono essere ricondotti a quanto descritto da Jung (es. in Opere, vol.16 “Pratica della psicoterapia”, Boringhieri, 1958) e da Hillman (es. in “Psicologia Archetipica”, Treccani, 1980). Da Jung, distinguiamo quattro stadi della terapia: “confessione”, “chiarimento”, “educazione” e “trasformazione”. Questi stadi non sono conseguenti, ma vengono applicati insieme nella pratica terapeutica con il paziente. Ogni stadio comporta infatti l’uso di più di una tecnica derivata da impostazioni teoriche anche di approccio diverso; ad esempio, “confessione” e “chiarimento” sono mutuate dalla pratica freudiana, mentre l’”educazione” è una tecnica derivata dalla teoria adleriana, e la “trasformazione” risulta essere il contributo specifico di Jung.

Nell’ambito della “confessione” del paziente e del “chiarimento” dei suoi contenuti e immaginari psichici, da Freud abbiamo tutti appreso l’importanza basilare di varie tecniche specifiche dell’analisi: l’anamnesi catartica o regressione abreativa, la libera associazione, l’interpretazione dei sogni, l’analisi dei meccanismi di difesa del paziente, e l’elaborazione del transfert che si attiva tra il terapeuta e il paziente. Tuttavia, grazie alla fondamentale opera di Jung e Hillman, la seduta di psicoanalisi si è trasformata nel tempo in quanto sono stati messi in luce gli aspetti deboli della procedura terapeutica freudiana, ed è stata messa in discussione e rivista radicalmente l’impostazione positivista e scientifica della psiche, fortemente egocentrica e dogmatica in quanto figlia del suo tempo. Negli anni, c’è stato modo di osservare e far evolvere il setting terapeutico stesso, apportando contributi anche da altre pratiche e approcci, come quelle della Gestalt e del teatro.

Il terapeuta archetipico è oggi un terapeuta junghiano-hillmaniano, che usa tecniche immaginative e archetipiche, e si focalizza maggiormente sulla “trasformazione” degli immaginari del paziente. Ma per poter usare al meglio queste tecniche, risulta imprescindibile saper usare e padroneggiare prima le altre. Nella pratica col paziente, perciò, si parte sempre dal racconto libero, attraverso cui gli immaginari del paziente e le libere associazioni che il paziente fa su di essi si presentano spontaneamente nel suo discorso.

Il terapeuta archetipico riconosce l’importanza di non interrompere il discorso del paziente, cioè il flusso dell’anima e dei suoi immaginari, altrimenti lo devierebbe inevitabilmente, imponendo i propri immaginari a quelli del paziente e spostando tutta la sua terapia su se stesso. È questo un maggiore difetto della maggior parte degli psicologi e psicoterapeuti in circolazione, quello di non arrivare mai effettivamente all’anima del paziente proprio perché il terapeuta ostacola continuamente col suo sapere, il suo modello, le sue immagini e il suo modo di vedere invece le immagini dell’anima del paziente, che sono ciò che lo cureranno veramente nel comprenderne il loro significato sacro e divino. Il paziente, infatti, viene in terapia proprio affinché la sua anima possa parlare attraverso le sue immagini e così farsi nel mondo, e le immagini sono già contenute nel discorso del paziente stesso.

Qui il compito del terapeuta è esclusivamente quello di individuare e annotare gli immaginari del paziente, così come essi vengono riportati, e operare una restituzione degli immaginari attraverso una loro elaborazione archetipica. Per esempio, attraverso l’amplificazione degli immaginari nel sostrato simbolico archetipico e collettivo della psiche, e la loro coagulazione nella restituzione essi vengono riportati alla coscienza del paziente come insight e intuizioni fattualmente comprensibili e da lui utilizzabili, ad esempio nell’acquisizione di una nuova visione, nell’attuazione di una scelta o nella produzione di un nuovo atteggiamento. L’elaborazione degli immaginari traumatici, penosi e conflittuali porta infatti a una spontanea scarica emotiva che libera il ricordo dal vissuto complessuale. In altre parole il suo solo parlare, riflettere e ricordare libera già il paziente dal vissuto penoso o doloroso legato a specifici immaginari psichici (per approfondire: leggi l’articolo “Cos’è la Psicologia Archetipica“).

L’educazione del paziente occupa un ruolo importante nella pratica terapeutica. Non solo Jung proponeva che il paziente dovesse essere opportunamente “educato” alla comprensione degli immaginari psichici e al procedimento terapeutico nell’ambito delle problematiche più ampie della coscienza collettiva, in cui il problema del paziente va sempre ricollocato. Già Adler mise in luce il bisogno fondamentale di adattamento sociale e di affermazione dell’individuo, come suoi scopi  all’interno della società. Dalla psicologia individuale adleriana perciò mutuiamo le tecniche volte al dialogo psicoeducativo e persuasivo. Qui il ruolo del terapeuta è quello di dare al paziente delle direttive per farlo meglio adattare al suo contesto sociale e culturale. I sintomi sono spesso già ridotti dall’educazione stessa: quando una persona capisce, infatti, riduce lo spazio e il tempo rivolti alle forme nevrotiche collegate al suo degrado sociale o risultanti dal suo atteggiamento oppositivo.

Le tecniche trasformative costituiscono il nucleo centrale della nostra terapia. Jung inizialmente, e successivamente Hillman, fanno riferimento al rapporto tra paziente e terapeuta nei confronti della psiche. Il terapeuta non è più il “padrone” o colui che teneva più che altro il ruolo di educatore, come nel classico setting freudiano e adleriano, ma lungo il suo percorso di formazione, terapia didattica su se stesso e supervisione clinica e procedurale, ha imparato a farsi soprattutto “guida” o accompagnatore del paziente, operando come facilitatore dei contenuti psichici che emergono nella terapia. In particolare, lo psicoterapeuta riconosce che è la psiche del paziente, non il terapeuta, a condurre lo stesso percorso terapeutico, così come il suo processo di individuazione nel mondo.

Qui Jung fu perentorio nel porre una netta distanza dalla tecnica freudiana, affermando che il compito della psicoterapia consiste nel permettere che le immagini dell’anima facciano mutare l’atteggiamento cosciente del paziente, attraverso il “conosci te stesso”, e non l’inseguire i suoi ricordi d’infanzia sommersi e i problemi coi genitori o i traumi del passato. Già Freud a fine vita si rese conto, infatti, che il passato e i ricordi sono perlopiù frutto di fantasie e false memorie, ovvero dell’immaginario dell’io del paziente a cui questi rimane complessualmente attaccato, così riproducendo continuamente lo stesso conflitto psichico.

A tale scopo, dalla psicologia analitica junghiana continuiamo a utilizzare le tecniche dell’amplificazione e dell’elaborazione del processo di individuazione, l’analisi (non l’interpretazione) dei sogni, le tecniche immaginative verbali e i metodi espressivi non-verbali come l’immaginazione attiva, il disegno e il gioco della sabbia. La psicologia archetipica di Hillman si è successivamente focalizzata sulle tecniche immaginative narrative e sull’analisi dell’individuazione delle immagini archetipiche e la scomposizione o dialogo tra personaggi psichici, nonché sulla ricerca del Daimon e della vocazione nel mondo (la “teoria della Ghianda” di Hillman; per un approfondimento, leggi questo articolo).

La psicologia archetipica concepisce la terapia, e la psicopatologia, come la “messa in scena” della fantasia. Come spiega Hillman, anziché prescrivere e impiegare la terapia per la patologia, sottopone ad autoesame la fantasia della terapia; in tal modo la terapia evita di perpetuare il circolo vizioso per il quale il linguaggio dell’anima venga ridotto al mero letteralismo, ovvero a una semplice questione di fatti concreti e azioni specifiche, di cui invece l’anima non parla mai direttamente. Poiché il modo in cui raccontiamo la nostra storia è il modo in cui formiamo la nostra terapia, il vero lavoro terapeutico consiste nel diventare consci della storia archetipica e mitica in cui il paziente ha una parte da recitare, e nel riscrivere o nel far riscrivere, in collaborazione, la storia, rinarrandola in uno stile più profondo e autentico. In questa versione rinarrata nella quale l’arte immaginativa diventa il modello, i fallimenti e le sofferenze personali del paziente sono essenziali per la storia collettiva del mondo, come lo sono per l’arte.

La nostra può quindi essere definita una terapia “centrata sull’immagine”, in cui il sogno e il sognare acquistano un valore paradigmatico. Possiamo considerare la terapia stessa come un sogno, che di fatto è un fascio di immagini, quasi stessimo situando l’intero procedimento psicoterapeutico nel contesto di un sogno. Tutti gli eventi sono considerabili e considerati da un punto di vista “onirico”, come se fossero immagini e immaginari, espressioni metaforiche dell’anima. In questo modo, la terapia mira in ultima analisi a far riemergere e sviluppare nel paziente l’autentico potere curativo dell’immaginazione psichica (la vera imaginatio di Paracelso e degli alchimisti): ad esempio la capacità di vivere la propria vita in compagnia delle immagini di antenati, fantasmi, spiriti guida, demoni familiari, e di tutta la folla del metaxy con cui siamo a contatto nella nostra psiche, e che ci guida nel mondo.

Hillman estende l’ambito della terapia centrata sull’immagine fino ad abbracciare il mondo sensibile degli oggetti della percezione e delle forme abituali dell’ambiente naturale e civile: paesaggi, strade, edifici, ma anche sistemi burocratici, linguaggio convenzionale, alimentazione, istruzione. La psicologia archetipica è infatti un movimento culturale che ha “l’ambizione di recuperare l’anima mundi, scrutando le sembianze del mondo come una fisiognomia estetica. Un siffatto orientamento ravvisa nella terapia qualcosa che travalica di gran lunga i confini dell’incontro tra due persone in privato: il compito che la teoria si assume è quello di re-immaginare il mondo pubblico nel quale vive il paziente. Questo concetto di terapia cerca di attuare la base poetica della mente nel quotidiano, come una risposta estetica, immaginativa.

Ogni persona reagisce all’ambiente, quando viene riconosciuto come “immaginistico”, in modo più psicologico, con la conseguenza che il concetto di “psicologico” si estende anche all’estetico, e la “terapia” – prima limitata alle ore nello studio del terapeuta – si trasforma in un’incessante attività immaginativa ovunque, in casa, per strada, a tavola o davanti alla televisione. La liberazione della terapia dal confinamento nello studio del terapeuta richiede anzitutto una “ri-valutazione” dell’identità psiche-sentimento, quell’identificazione dell’individuo con l’emozione che caratterizza tutte le scuole psicoterapeutiche sin dalle ricerche freudiane sull’isteria da conversione, sull’abreazione e sul transfert. In breve, la terapia si è interessata dei sentimenti personali, e le immagini del paziente sono state ridotte ai suoi sentimenti” (J. Hillman, “Psicologia Archetipica”, Treccani, 1980).

Hillman ci insegna a rovesciare il rapporto tra sentimento e immagine: “i sentimenti vengono considerati, come ha detto William Blake, «influssi divini», che accompagnano, qualificano e animano le immagini. Non sono personali, ma appartengono alla realtà immaginale, la realtà dell’immagine, e contribuiscono a far sentire l’immagine come un valore specifico. I sentimenti elaborano la sua complessità, e la complessità dei sentimenti corrisponde a quella dell’immagine che li contiene. La verità non è già che le immagini rappresentino i sentimenti, bensì che i sentimenti ineriscono alle immagini” (ibidem). Poiché ogni evento viene sperimentato come un’immagine, esso è al tempo stesso animato e caricato di emozione. “Il compito della terapia è quindi quello di ricondurre i sentimenti personali (ansia, desiderio, confusione, noia, infelicità, ecc.) alle immagini specifiche che li contengono. La terapia tenta di individuare il volto di ogni emozione: il corpo del desiderio, la faccia della paura, la situazione della disperazione; i sentimenti sono immaginati sin nei particolari” (ibidem). Come nell’arte e nella poesia, ciò riporta l’io e la coscienza a riconnettersi col sostrato simbolico e immaginistico del mondo e all’anima mundi.