Dottore, sono pazzo io oppure lei? Il mito della diagnosi

Tutti, prima o poi, riceviamo una diagnosi. Un giorno arriva un esperto e con una parola ci dice qualcosa che modifica il corso della nostra vita, in peggio o in meglio. L’impatto iatrogeno della diagnosi, ovvero i suoi effetti benefici o dannosi sulla patologia del paziente, sono stati estesamente studiati già da molti anni, ma a tutt’oggi non se ne considera ancora la portata. Quando parliamo di diagnosi dobbiamo assolutamente sfatare alcuni miti, e reificarne altri. È la Psiche stessa che, attraverso i sintomi del corpo, ce lo chiede. A medici e psicologi, la Psiche chiede di ricordarsi che ogni volta che arriva un paziente al loro studio, si trovano davanti una Persona che, come essere vivente, porta tutta la complessità della natura nel suo studio, complessità che non puo’ essere mai ridotta a una sola etichetta diagnostica, e che farlo è assolutamente sbagliato nonché pericoloso. Ai pazienti, la Psiche chiede invece di ri-guardarsi, ovvero di guardare al proprio corpo con immagini diverse, come occasione per conoscere se stessi e ri-conoscere che quei sintomi sono “simboli” della loro inconscia sofferenza. A tutti quanti, la malattia obbliga a fare “psicologia”, ovvero un “discorso sulla psiche” (dal greco psyché + lògos), e riconoscere che anche laddove la sintomatologia abbia un’eziologia biologica, noi portiamo significati, atteggiamenti e concezioni culturali che possono convergere, oppure opporsi, a quelli stessi della “patologia” (pathos + lògos) ovvero sullo spontaneo “discorso sulla sofferenza” della Psiche nel nostro corpo. A tutti quanti, la malattia perciò ricorda che è lo stesso discorso che si fa su di essa, e sui sintomi come suoi simboli, ciò che determina il trattamento stesso. La prima “cura”, ci ricorda Hillman, sono le parole di questo discorso, e dobbiamo porci una costante attenzione così come siamo chiamati a porla sul nostro atteggiamento verso la malattia. Se esiste una guarigione, essa è nelle parole che vengono dispensate come medicamento per le immagini della Psiche. La nostra è una terapia della parola, ma attenzione: lo è sempre, anche col medico, con i parenti, con gli amici. È il modo in cui vediamo e descriviamo il sintomo e la malattia che, nella diagnosi come nel parlarne quotidiano, costituisce lo stesso trattamento.

Il primo mito da sfatare è infatti quello che abita le concezioni di molti psicoterapeuti, quasi tutti, e pone una importanza letterale, piuttosto fatale, nella diagnosi, e si polarizza lungo l’asse dei “no-diagnosi” versus i “pro-diagnosi”, diatriba che ha ormai preso il cattivo gusto delle solite opposizioni tra pacifisti e interventisti. Non potendo qui elencare tutte le prove a favore o contro l’una o l’altra posizione, mi limiterò a dire che vi sono argomenti per entrambe. Certamente sono e saranno sempre di grande mònito per tutti pietre miliari di questa ricerca come lo studio condotto da Rosenhan negli anni settanta intitolato “On being sane in insane places” e pubblicato su Science. Aveva mandato alcuni collaboratori in dodici ospedali chiedendo loro di simulare allucinazioni uditive, ma di mantenere per il resto un comportamento assolutamente normale: vennero tutti diagnosticati come psicotici e ricoverati per diverse settimane. Una volta svelata la beffa, alcuni ospedali coinvolti sfidarono Rosenhan a inviare altri suoi “finti” pazienti, cosicché gli operatori potessero distinguerli da quelli “veri”. Su 193 nuove ammissioni, i medici identificarono 41 potenziali pazienti “finti”. Un buon risultato, peccato che Rosenhan questa volta non aveva mandato nessuno… e il sistema diagnostico fu così beffato ancora una volta. D’altra parte, proprio in quell’epoca furono gli psichiatri fenomenologici come Franco Basaglia a dare corpo e voce alla crisi dell’istituzione psichiatrica, restituendo ai pazienti la relazione con il loro medico e sottraendoli alle cure disperate della reclusione manicomiale con la legge che porta il suo nome. Lungi dall’aver tuttavia risolto il problema di una diagnosi effettuata sulla “persona” per un trattamento efficace del disagio psichico (molti malati mentali finiranno abbandonati a se stessi e alle famiglie, paradossalmente incrementando l’uso di psicofarmaci e i ricoveri in strutture private), questa necessità parallelamente esplode nel mondo con la produzione di ben sette edizioni del DSM (il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) in sessant’anni. Il primo DSM aveva 130 pagine e contemplava 106 disturbi; il DSM-5, uscito nel 2013, ha circa 1000 pagine ed elenca quasi 300 disturbi. “Un dato che al tempo stesso significa iperdiagnosticismo, ma anche aggiornamenti continui” come scrive Lingiardi sull’argomento. Ricordo a tutti che il DSM, come ogni manuale diagnostico e nosologico, è esso stesso un prodotto della nostra cultura, per cui le descrizioni e le classificazioni delle psicopatologie fioriscono sul cammino della storia, cambiano col tempo e molte appassiscono. Possono spuntare dall’oggi al domani come la diagnosi di “Disturbo post-traumatico da stress”, a seguito dei sintomi dei reduci della guerra del Vietnam, oppure morire lentamente e senza gloria come le diagnosi di “isteria” o di “omosessualità”, cancellate dal DSM perché riconosciute come un prodotto del pregiudizio sociale patriarcalista, la prima, e dell’omofobia interiorizzata, la seconda.

Le diagnosi sono perciò esse stesse un prodotto psicologico-culturale: sono idee che entrano a far parte degli immaginari delle persone, perché sono anzitutto “linguaggio”, ovvero le immagini e le parole che queste hanno per parlare e descrivere se stessi e gli altri. Molti se lo sono dimenticato, ma dobbiamo proprio a Freud l’esigenza di fare una diagnosi per potersi confrontare analiticamente con i suoi colleghi; e gran parte della terminologia diagnostica contemporanea deriva da lui, senz’altro quella che poi si è travasata nel linguaggio comune, come ad esempio i termini “isterico”, “ossessivo”, “paranoico”, “narcisista”. Qualcuno conia parole e immagini, generate dalla sua visione del paziente e dalle sue concezioni sulla sua malattia, e da qui nasce quella che Hillman chiamerà una “mitologia moderna”, ovvero la psicologia e la psicodiagnostica positivista. Non dimentichiamo perciò che “fare diagnosi” è insito nella nostra natura e nella modalità comune di pensiero (quindi nel funzionamento della coscienza) di ogni individuo. Come dice Lingiardi, “una diagnosi psicologica la facciamo tutti nella vita di tutti i giorni. Quando pensiamo che una persona ci è simpatica, o antipatica, che è espansiva, oppure riservata, arrogante oppure gentile, non stiamo forse facendo una specie di “diagnosi”?”. La questione “se fare o meno la diagnosi” cessa pertanto di esistere al ricondurla nel recinto della semeiotica, ovvero delle “parole” che si usano per narrare il proprio stato psicofisico, nonché dei “segni” che descrivono la propria condizione, ovvero i sintomi. Il più delle volte la diagnosi, soprattutto quella medica, è una conoscenza obbligata, che dapprima acquista una forma specifica, tecnica e relazionale, e puo’ diventare una sorpresa sgradita, un un accidente o un fardello di cui anche il medico e lo psicologo, oltre al paziente, vorrebbero liberarsi.

Ma la fragilità a cui ci espone la diagnosi è ormai parte di noi ed è essa stessa l’immagine della fragilità delle nostre concezioni di noi stessi e del mondo che ci circonda, portando con sé tuttavia i semi di una guarigione metaforica, ovvero nella possibilità di ripensare la nostra storia e il nostro futuro, il nostro posto nel mondo. Ricevere una diagnosi non è mai un fatto neutro, e porta sempre con sé una dimensione esistenziale, sia intima che sociale. Non possiamo ignorare il fatto che le diagnosi siano “metafore” e rappresentazioni personali che fanno parte di noi, che ci piacciano o meno. È difficile non pensare alla diagnosi di omosessualità di Sachs, a quella di psicosi di Van Gogh, all’epilessia di Dostoevskij, al cancro di Terzani come metafore della loro esistenza. Ed è difficile non pensare a Woody Allen, Kurt Cobain, Mel Gibson o a Charles Manson come persone affette da nevrosi, depressione, alcolismo e psicopatia, rispettivamente. Qui si tratta di capire che oltre la malattia c’è una persona con la sua personalità e la sua storia personale e sociale, le sue metafore e rappresentazioni del suo mito. Come nelle narrazioni di Tolstoj o Chechov nei personaggi di Ivan Il’ič e Nikolaj Stepanovič, ma nelle stesse narrazioni di esperienze personali come fecero Proust o Virginia Woolf nelle loro memorie, l’incontro con la diagnosi è occasione di risveglio alla vita e sua metafora, narrazione della condizione dell’individuo come linguaggio della sua anima nel mondo. La malattia come storia e narrazione diventa, ad esempio, il fulcro psicoanalitico della cosiddetta “medicina narrativa”, il cui primo ambulatorio italiano apre nel 2018 nella Asl di Rieti per opera del collega Umberto Caraccia, e rappresenta il tentativo di colmare lo spazio tra l’armamentario diagnostico della medicina moderna e il racconto personale che fa il paziente della sua malattia. Come scriveva Sachs, “l’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé”. La pratica clinica è fatta di racconti, e la diagnosi stessa è il tentativo di dare una trama a eventi che sembrano perlopiù non collegati. E’ quindi al mito, ovvero al complesso di narrazioni che rappresentano la realtà dell’uomo e della sua esistenza, che la diagnosi va ricondotta.

La malattia non sta in una definizione, ma in una storia. Il mito stesso di chi cura ci narra e ci insegna, ad esempio, che ogni medico, ogni terapeuta, è un “guaritore ferito”. La medicina, insegnata da Asclepio al centauro Chirone, metà uomo e metà cavallo, è in questa sua stessa immagine ambivalente. Come il farmaco stesso, che nella sua etimologia (dal greco pharmakón, “medicina velenosa”) contiene già il duplice aspetto del suo potere, che puo’ essere portatore di salute ma anche di morte. Chirone è un centauro diverso dagli altri, è saggio e di animo mite, ama le scienze e la cultura. Educa dèi ed eroi come Achille, a cui insegna a tirare con l’arco e a guarire le ferite, ed Asclepio, il dio dell’arte medica figlio di Apollo. In lotta contro i centauri, Eracle per sbaglio lo ferisce con una lancia avvelenata col sangue dell’Idra, una ferita che non puo’ guarire perché il veleno è troppo forte e Chirone, figlio di dèi, allo stesso tempo non puo’ morire. Ecco il dio eternamente sofferente, il “guaritore ferito” a cui rimanda Jung parlando della diagnosi del medico. La sofferenza della ferita eternamente aperta di Chirone addolora Eracle, che non puo’ nulla per curarla se non pentirsi del suo eccessivo e incontrollato eroismo. Sarà lo stesso Chirone a porre fine alle sue sofferenze rinunciando alla sua immortalità e chiedendo a Zeus di restituire alla vita il titano Prometeo al posto della sua morte: quel Prometeo che aveva peccato di hybris rubando il fuoco agli dèi per donarlo ai mortali, e così andando contro il volere divino. Questo mito narra sia dell’innata condizione di sofferenza da cui ogni terapeuta è costretto a partire, sia del destino infausto della sua cura qualora il terapeuta dimentichi nella sua diagnosi che anche lui è un paziente, e il paziente dimentichi nella sua terapia il suo aspetto di guaritore. “Solo il medico ferito guarisce”, dice Jung: “se si rinchiude nell’abito professionale come in una corazza, non ha efficacia”, e allo stesso modo è bene che venga alla luce il paziente-medico, ovvero la cura di sé a cui ognuno di noi è chiamato nella propria condizione. Va ricordato che sia il terapeuta che il paziente attuano difese contro la malattia, e che la diagnosi troppo spesso rappresenta per entrambi materia di scontro più che il terreno di incontro nella loro relazione.

Come afferma Lingiardi, “le motivazioni psicologiche che portano a scegliere una professione d’aiuto comprendono sempre aspetti autobiografici e talvolta elementi conflittuali”: il “guaritore” porta con sé una “ferita” che se non viene “guarita”, ad esempio, attraverso un percorso psicoterapeutico su se stessi (cosa che non fanno ad esempio i cognitivo-comportamentali, che vengono fregiati dell’attributo di “psicoterapeuta” senza essere mai stati obbligati a fare un’ora di psicoterapia) o attraverso uno specifico iter formativo relazionale, determinà il riattivarsi di quella ferita con quella di ogni paziente e assumerà inconsciamente una posizione narcisistica, presupponendo di aiutare eroicamente gli altri con la sua sapienza e il suo potere. Nel saggio “Al di sopra del malato e della malattia. Il potere assoluto del terapeuta”, lo psicoanalista Adolf Guggenbühl-Craig affromta il tema del potere e dell’inevitabile asimmetria nelle relazioni di cura. Un’asimmetria che deve sempre essere custodita e sorvegliata dalle leggi della deontologia e della conoscenza scientifica, quel contenitore che in psicoterapia si chiama setting. Troppo spesso sento colleghi e colleghe giudicare la personalità del paziente, usando perlopiù il loro giudizio con valenza diagnostica sul paziente. Quando insomma il malato diventa solo “malattia”, la persona solo un “caso clinico” e la diagnosi si fa strumento di ragione e potere, è chiaro che il terapeuta ha malamente attuato le sue difese psicologiche contro il disagio del paziente. E ciò certamente nuocerà alla terapia stessa, perché come il grande medico e psicoanalista Michael Balint ha dimostrato negli anni cinquanta, il medico stesso è un farmaco e la relazione con il paziente è un atto terapeutico. Imparando ad ascoltare il paziente, il medico inizierà ad ascoltare lo stesso tipo di linguaggio dentro di sé, piuttosto che imporre il suo (come strumento per sentirsi forte e giusto). I terapeuti bravi sono coloro che lasciano parlare il paziente, anche quando sembra raccontare scemenze, e che accolgono la loro richiesta universalmente implicita nella domanda d’aiuto: quella di essere anzitutto ascoltati. Sono ancora più bravi, poi, se nell’ascolto riescono a leggere nelle stesse parole del paziente la simbologia del disagio, e quindi l’eziologia del problema psicologico sotteso. In sostanza, il clinico non deve usare le sue immagini e le sue parole per descrivere il paziente, perché quelle costituiranno sempre immagini e parole della sua psiche e non di quella del paziente, e il terapeuta starà più che altro saggiando le sue competenze usando il paziente come cavia piuttosto che rilevando i suoi immaginari psichici, la materia stessa del conflitto psichico da risolvere.

Tra i motivi di una cattiva relazione tra terapeuta e paziente, e quindi di una cattiva diagnosi e terapia, non ci sono soltanto l’atteggiamento e la preparazione del terapeuta. Ogni anno in Italia più di 1000 medici vengono aggrediti da pazienti o loro familiari, la maggior parte sono dottoresse. Se da una parte la diagnosi richiede un esperto, l’autodiagnosi sta diventando il mezzo preferito per fare congetture sulla propria condizione fisica, non solo per i cybercondriaci ma anche da parte dei medici stessi, sempre più disorientati e responsabilizzati in questo mondo affetto da scientismo e infodemìa. Se non lo fanno i medici, spesso sono i pazienti stessi a non voler farsi carico della propria condizione psicologica sottesa al problema somatico, proiettandola (e semmai attivandola) nella figura del medico stesso. Come diceva Pennebaker, “se una persona si trova di fronte uno psicologo, è pronta a parlargli di tutto. Se gli diciamo che deve attraversare la strada per incontrarlo, difficilmente lo farà”: la maggior parte dei pazienti oggi si aspetta risposte e soluzioni precise e risolutive, facilitando un procedimento riduzionistico e meccanicistico nella terapia, piuttosto che un approccio eco-bio-psicologico, centrato sulla Persona. Se da una parte la ricerca scientifica approda a una concezione olistica della malattia come inserita nel paradigma della complessità, dall’altra “autodidattismo scientifico e dilettantismo medico, soprattutto quando si mettono al servizio di tratti ansiosi o propensioni ipocondriache, finiscono per promuovere conclusioni superficiali o inutilmente terrorizzanti”, come afferma Lingiardi nel suo libro “Diagnosi e destino”. Perlopiù si legge di medici che sono costretti a lavorare in ospedali fatiscenti con turni massacranti e carenza di personale, oppure isolati e costretti da protocolli standardizzati, come i medici di base durante la pandemia da COVID-19, di cui abbiamo studiato le condizioni di stress e coping in un recente studio pubblicato su Frontiers of Psychology.

A questo punto, si tratta di reificare il mito stesso della diagnosi clinica, e capire in che davvero consista il suo potere divino. Perché, come afferma Lingiardi, “tutto sta nella giusta comprensione etimologica della parola “diagnosi”. Nell’intreccio delle sue radici troviamo il conoscere, il riconoscere, il capire… “attraverso”, “per mezzo di” (διά). Attraverso cosa? Per esempio i sintomi (soggettivi e riferiti dal paziente) e i segni (oggettivi e riscontrati dal medico), grazie ai quali si puo’ risalire alle cause e si possono fare ipotesi, confronti, previsioni, in vista della terapia. Ma non sempre il sintomo parla attraverso il corpo; la conoscenza del clinico deve rivolgersi ai pensieri, ai sentimenti e agli affetti, ai comportamenti. Sono spesso indecifrabili, a volte silenziosi che proprio non li sentiamo, altre volte sono rumorosi, troppo, fino a coprire la possibilità di ascoltarli”. Ricordiamo che anticamente negli ospedali, come luoghi sacri della cura, ci si andava per dormiva e “ascoltare” nel sonno o nella trance, come per gli oracoli, il messaggio divino che rappresentava la “cura” suggerita, ed è quindi al mondo delle immagini della psiche e dei suoi miti che il sintomo stesso si riferisce, suggerendo al tempo stesso sia il problema che il comportamento da attuare e la sua soluzione, simbolicamente rappresentata nel sintomo “divino” come nel mito stesso, immagine sua. “Allora il prefisso “attraverso””, dice Lingiardi, “si riferisce alla voce dell’altro, che sia silenzio, dialogo o grido. Ecco dunque il significato ultimo della parola diagnosi: conoscenza e ascolto nell’incontro”. In terapia, è la psiche che parla, attraverso le immagini e le parole del suo racconto, attraverso i suoi simboli come sintomi.

E poiché la nostra è una diagnosi clinica, dal greco kliné, “letto” e in genere “adagiarsi”, “inclinarsi”, “appoggiarsi”: il “clinico” è chi visita l’ammalato a letto e va verso di lui, metaforicamente è la diagnosi che deve adattarsi al paziente, non il paziente alla diagnosi. La visione clinica migliore è quella che si adagia, che si inclina e si appoggia tra un sapere idiografico, cioè che si concentra sulle peculiarità del singolo, speciale e irripetibile, e una conoscenza nomotetica, cioè che cerca di stabilire leggi generali e riconduce il singolo al collettivo. Il medium, la materia prima, è sempre il racconto, la storia diagnostica che “passa attraverso” la conoscenza del paziente e del terapeuta sottoforma di immagini, e attraverso il racconto della patologia riscrive la storia di entrambi.

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