Coronavirus: malattia dell’anima.

Sul Coronavirus abbiamo ormai detto e letto di tutto. Eppure, come per tutte le cose invisibili che appartengono al microcosmo, la sua comparsa nelle nostre vite, come il suo destino, sono ancora avvolti da un grande mistero. È il mistero della vita stessa che da secoli ci sfugge, e che questo virus invisibile ha per la prima volta materializzato nella nostra immaginazione, grazie alle nuove tecnologie di immunologia e di microscopia. Tuttavia l’immagine di questo virus e il suo significato non sono stati ancora ri-visti e compresi appieno. Cos’è il Coronavirus, e qual è per noi il suo significato?

Guardiamo anzitutto alla sua descrizione.

“virus – Particella infettiva di natura non cellulare e di dimensioni submicroscopiche (20÷400 nm), incapace di un metabolismo autonomo e perciò caratterizzata da vita parassitaria endocellulare. I virus non sono definibili come organismi perché non hanno struttura cellulare e per potersi riprodurre utilizzano le cellule in cui penetrano, infettandole. […] sono comunque dotati di informazione genetica e si evolvono, adattandosi all’ambiente cellulare in cui si riproducono. Infettano cellule di animali, piante, batteri (in questo caso sono detti batteriofagi) introducendovi il proprio genoma e utilizzando l’apparato biosintetico dell’ospite per la sintesi dei costituenti virali. Sono gli agenti di numerose malattie (virosi); probabilmente svolgono un’importante funzione nella selezione naturale delle specie” (Dizionario di Medicina, Treccani, 2010).

Il virus è una particella invisibile appartenente al microcosmo, sappiamo che però non è una cellula e non appartiene al mondo organico, ovvero non è un organismo per sé vivente, ma per sopravvivere ha bisogno di un corpo, nelle cui cellule si auto-inietta. Pur non essendo un organismo, il virus ha un suo codice genetico, potremmo dire che esso è costitutito esclusivamente da un codice genetico “volatile”, che cerca di entrare in contatto con animali, piante e batteri, adattandosi all’ambiente in cui vivono e sfruttando i meccanismi cellulari per riprodursi, fino a distruggerne l’omeostasi e l’equilibrio vitale. Nella sua definizione, la frase “probabilmente svolgono un’importante funzione nella selezione naturale delle specie” getta una luce ambigua sul telos del virus, che giunge aldilà di ciò che in noi stessi vediamo, ovvero “oltre l’Io” e la morte che puo’ (e sembra voler) causare in alcune persone. Ciò appare comprensibile se acquisiamo una visione d’insieme, ovvero se non consideriamo come sistema vivente solamente la cellula dell’uomo e il suo corpo, ma la funzione del virus nel sistema natura-mondo, cioè quello di “selezionare” alcuni individui rispetto ad altri. In alcuni, cioè, si fa veicolo della sua trasmissione, inducendo in essi una immunizzazione e la relativa resistenza agli effetti negativi del virus stesso; altri li conduce direttamente alla morte. Ad ogni modo, sarà preservata l’omeostasi del sistema-mondo all’interno del quale l’uomo è soltanto una parte tra infinite altre.

C’è quindi sempre uno scopo superiore, una “legge di natura” alla quale noi esseri umani siamo sottoposti, e che molto spesso dimentichiamo poiché non sembra agire in modo chiaro ed evidente ai nostri occhi, né funzionare secondo una relazione di causa-effetto come quella che appare nella relazione contagio da Coronavirus –morte per polmonite. Quest’ordine “superiore” di fenomeni puo’ essere compreso solamente acquisendo, assieme a quella causalistica, una visione sincronicistica della realtà, la quale puo’ essere sintetizzata dal detto alchemico “come sopra così sotto”, attribuito ad Hermes Trismegistos, che significa che tutto ciò che accade nel macrocosmo e nel mondo visibile, ha allo stesso tempo un corrispettivo nel microcosmo o nel mondo invisibile. Qui il concetto di sincronicità puo’ apparire più evidente se ci fermiamo ad osservare l’immagine del Coronavirus, la sua stessa fotografia.

La sua forma biologica ci sembra familiare, ed è incredibile come la natura riesca a conservare le stesse forme archetipiche in ogni parte dell’universo. È anzitutto una sfera, dalla quale emergono numerosi punti di contatto in ogni direzione, come se fosse un “centro” di contatto del mondo. Jung(1) scrive che, secondo un’antica tradizione, anche l’anima avrebbe una forma sferica, e le sfere di luce visibili nell’aria sono generalmente considerate anime nelle parti più diverse del mondo. Jung ci dice anche che il cerchio o la sfera, come la quaternità, sono forme della totalità e dell’unità, e rappresentano contenuti e funzioni inconsce che si trovano ancora nella sfera extra-umana, al di là della coscienza, in un tertium non datur che non possiamo rappresentarci se non come unione di ciò che è cosciente e ciò che è inconsciente, come le funzioni del corpo e lo pneuma che generiamo respirando e parlando. Il “soffio di vita”, quale etimologia di anima, che trasporta il Coronavirus, è in esso simbolizzato in questa sfera fluttuante, che in alchimia rappresenta il lapis stesso, la pietra filosofale come sostanza catalizzatrice capace di risanare la corruzione della materia, e in grado di conferire diverse virtù divine all’uomo: l’immortalità come panacea per qualsiasi malattia, l’onniscienza ovvero la conoscenza assoluta del passato e del futuro, e del bene e del male, e infine la capacità di trasmutare in “oro” i metalli vili del mondo materiale. Il Coronavirus, come appare nell’immagine ricostruita al microscopio elettronico, appare rosso proprio come il lapis, che significa sangue e affettività, la reazione fisiologica che unisce il corpo allo spirito. Nel linguaggio alchemico, rappresenta quindi la capacità di sintesi tra gli opposti del corpo e dello spirito, uniti da un terzo elemento, l’anima come ligamento corporalis ed spiritus(2) . L’unità e totalità compiuta nella rappresentazione del Coronavirus è perciò, nella psicologia junghiana, un’immagine mandalica e simbolo del Sé, in quanto totalità psichica e allo stesso tempo immagine di Dio, perché, ci dice Jung, la sfera centrale, il cerchio e la quaternità, sono simboli divini. Dio è da sempre colui che dona la vita e allo stesso tempo la cessa, in un ciclo infinito di rinascita e rigenerazione. Ma se un virus è quindi espressione di uno pneuma o spirito divino, come possiamo capire quale archetipo o divinità ci sta agendo attraverso il Coronavirus?

Il virus è un messaggero dell’anima

L’etimologia della parola virus si ricollega alla radice indoeuropea vis- che significa “essere attivo”, “essere aggressivo”; da questa radice, poi derivò il sanscrito vis-âs ed il latino virus che significano entrambi veleno. Ma vis in latino significa forza ed è anche uno dei sinonimi di anima, qui per estensione intesa come soffio vitale e principio motore della vita, perciò come sua forza motrice: “l’anima dell’universo non ha raggione di principio ma di causa”, scriveva Giordano Bruno, ricordandoci che l’anima stessa è il motore di tutte le cose. Il termine “anima” come noi correntemente lo utilizziamo deriva dal greco antico psūkhē o psiche (ψυχή, connesso con ψύχω, “respirare, soffiare”) ed è la versione femminile di “animo”, la cui etimologia è invece riconducibile al latino animus con il significato di “spirito”, che a sua volta corrisponde al greco anemos (ἄνεμος), che significa “vento”. Anima e psiche sono quindi stati usati come sinonimi, ma in un’accezione distinta: entrambi si riferiscono alla parte vitale o energetica, quella psicologica, di un essere vivente, distinta da quella fisica del suo corpo e della materia. Tuttavia il termine psiche ha assunto nel tempo connotazioni più umane e corporali, mentre l’anima è stata collegata più strettamente alla metafisica, alla mistica e alla religione, associandola allo spirito divino e all’anima mundi, che però non rappresenta soltanto una dimensione psicologica orizzontale, cioè tra la parte conscia e inconscia dell’essere umano, ma anche quella verticale tra il corpo, il mondo terreno, e il cielo, il divino. Ed è proprio a questa dimensione verticale, e alle sue relazioni, che l’anima si manifesta attraverso il virus, contattando il polmone, lo pneuma che emana come spirito, respiro e soffio vitale.

La diffusione della polmonite atipica, causata dal Coronavirus, in una persona non malata avviene solitamente attraverso le goccioline di aerosol emesse da un contagiato, in occasione di starnuti, colpi di tosse o quando si parla, oppure attraverso il contatto con una superficie toccata in precedenza da un soggetto infetto, ma anche in questa seconda circostanza, per ammalarsi è indispensabile che la parte del corpo esposta alla superficie contaminata entri successivamente in contatto con le mucose del naso e della bocca. Se il respiro è l’elemento primo per riconoscere se un essere umano è in vita, l’apparato respiratorio rappresenta il punto di “contatto” e di scambio tra il divino e il corpo umano. Possiamo pertanto vedere questo virus come una forza o una causa agente dell’anima del mondo e del suo movimento attraverso il corpo. Nell’essere da essa contagiati attraverso l’aria che respiriamo e che qualcun altro prima di noi, magari già contagiato, ha respirato trasmettendola a noi, abbiamo perciò l’immagine di un’anima mundi che “contatta” l’uomo e comunica ad esso il suo codice, la sua forza agente, attraverso la funzione vitale dell’uomo, il respiro, nel polmone che si muove e la riproduce per mezzo del suo movimento e del parlare; cioè contatta l’uomo e si fa causa dell’ammalarsi del suo stesso principale organo vitale. La psicologia rappresenta questo movimento e l’azione di comunicazione dell’uomo attraverso l’anima (dal greco psyke e logos, “il parlare dell’anima”), e il nostro “fare anima” attraverso la parola è la sua stessa cura in psicoterapia. Qui appare come l’anima del mondo introduca l’RNA virale, il suo “codice messaggero” nel nostro corpo attraverso il nostro parlare e il contatto quotidiano, continuando a comunicare attraverso il suo infinito discorso: come scrisse Eraclito, “Dell’anima tu non potrai scoprire i termini pure percorrendo ogni sua via, così profondo è il suo logos”(3) . Gli antichi greci concepivano l’aria come “piena di anime”, e il dio che presiedeva tutto questo era Hermes, il dio messaggero che attraversava l’aria e rappresentava la comunicazione in tutte le possibili forme nell’universo. I presocratici dicevano che l’aria stessa è un dio, e questo dio era l’Anima stessa. Da Plotino in poi, la relazione tra anima e corpo diventa esse in anima, ovvero non è l’anima che sta dentro il corpo, ma è il corpo che sta immerso nell’anima. Il concetto di anima è la chiave di volta nella psicologia archetipica, laddove Hillman dice che l’aria stessa è il metaxy, la terra di mezzo dove l’anima transita e si “fa” attraversandola. Per Hillman, l’anima del mondo è la nostra stessa anima, che invisibilmente si è oggi in noi manifestata come sintomo e malattia attraverso le forme della sua divinità, ovvero nella costellazione dei suoi archetipi messaggeri, primo tra tutti Hermes, il dio della comunicazione. E allora cos’è il Coronavirus, se non il sintomo di un problema di comunicazione con l’anima, la nostra come quella del mondo in cui viviamo? Nell’era del sovraccarico informativo e della iperconnessione, abbiamo perso la comunicazione con l’anima, l’archetipo della vita stessa, con la natura e la forza vitale del mondo.

C’è molta confusione, oggi, in chi parla indifferentemente di anima, corpo, mente o spiritualità senza sapere in realtà a cosa si riferisce. Generalmente, poi, si tende ancora a non voler parlare di anima e di una sua malattia, perché non si crede ancora che l’anima esista, come a stento si riesce a credere in ciò che è invisibile, finché a un certo punto arriva qualcuno che si ritiene credibile, come uno scienziato, e gli attribuisce un nome, conferendogli il diritto di esistere. Oggi si riconduce il proprio mondo invisibile, ovvero ogni vissuto o reazione emotiva nonché ogni malattia interiore e sofferenza, alle funzioni biologiche del corpo e del cervello, ma allo stesso tempo si parla di sofferenze psicologiche come la depressione, e si seguono corsi di yoga, mindfulness, rituale sciamanico o filosofie orientali perché si sente la necessità di recuperare, si dice, la propria “salute” come “dimensione spirituale”, nonché il “contatto con la propria anima”. Ed è proprio di un problema di “contatto”, o se vogliamo di contagio, che ci parlano oggi le televisioni. Il nome che è stato scelto dagli scienziati per materializzare quest’agente virale invisibile, è Corona. Precisamente, il nome biologico dei Cornavirus è Orthocoronavirinae, descritta come una sottofamiglia della Coronaviridae. “Corona” deriva dal termine latino corona, che si riferisce a tutto ciò che è “piegato” o “curvo”, e a sua volta deriva dal greco κορώνη (korṓnē, “ghirlanda”), che indica la “corona” di fiori che orna il capo e allo stesso tempo l’aureola come cerchio luminoso. In età classica, l’aureola come corona dorata circondava il capo delle divinità gentili che discendevano da Giove (Zeus). In seguito, l’aureola fu attribuita agli imperatori romani, per rappresentarne l’origine divina, e nell’iconografia cristiana rappresenta i santi, laddove la corona indica quel grado di gloria e divinità che distingue i santi nel cielo. Tuttavia la corona osservata dai biologi si riferisce in prima istanza all’aspetto caratteristico delle virinae (precisamente la forma infettiva del virus) che fu inizialmente visibile al microscopio elettronico, e che presenta una serie di glicoproteine superficiali (ricostruite digitalmente con un colore dal giallo al rosso) che danno un’immagine che in loro ha ricordato una corona reale o solare. Nel nome assegnato al virus ritroviamo anche il prefisso ὀρϑός “retto” o “corretto”, a suggerire una forza giusta e retta proprio come quella di Zeus. E’ chiaro che all’immagine stessa della forma infettiva del virus e della sua famiglia è attribuito il potere divino dell’anima celeste, ed è in ciò che possiamo cogliere il significato archetipico che la scelta del nome Corona voleva riconoscere e fissare per questo virus. Che questa Corona fosse il vestigio di un potere attribuito al padre degli déi, lo suggerisce il fatto che la radice del nome Zeus significasse “il portatore di luce” perché il dio rappresentava per gli umani un nuovo ordine divino, “colui che dà il significato alla vita”, secondo Giorgio Antonelli rileggendo la Teogonìa di Eschilo. Il simbolo costellatosi agli occhi dei biologi, guardando sullo schermo del microscopio, dev’essere stato proprio quello di una particella divina, una corona solare, che come scrive Jung(4) , richiama all’antico dio Sole egizio: l’associazione del sole e del vento ricorre frequentemente nel simbolismo antico, con il significato archetipico del vento soccorrevole e pneumatico che soffia dal dio Sole nell’anima e la feconda. Hermes stesso, figlio di Zeus, era personificazione del vento e aveva il potere di portare i messaggi nell’aldilà, nell’Ade, e come psicopompo di uscirne senza alcuna conseguenza. Hermes era sempre in viaggio per il mondo, e attraverso l’aria portava il suo messaggio, come l’anima sia in senso orizzontale che verticale. Egli riceveva da Zeus e dagli altri dèi le missioni più delicate e aveva la libertà di trattarle a suo modo, poiché gli dèi avevano molta fiducia nell’abilità con cui portava a termine l’incarico. Hermes portava il caduceo, il bastone sacro e suo scettro, raffigurato con due serpenti avvolti a spirale come rappresentazione del bene e del male degli uomini, tenute in equilibrio dalla bacchetta alata del dio Ermes, che ne controlla l’equilibrio. Hermes lo esibiva come simbolo per dirimere le liti, poiché tale bastone era la manifestazione fisica dell'”equilibrio” che doveva esserci in tutte le cose del mondo. Simbolo di pace e prosperità, il caduceo aveva anche una valenza morale, poiché rappresentava la condotta onesta e al tempo stesso la salute fisica della persona, e perciò fu scambiato con il bastone di Esculapio, il dio della medicina, che è raffigurato con un solo serpente.

Se torniamo a guardare l’immagine del Coronavirus con questa amplificazione, e se restiamo nel significato che vi fu inizialmente associato, il virus ci appare come portatore sia di morte che illuminazione, nonché di una nuova coscienza e d’un nuovo ordine del mondo, di cui questo virus puo’ essere messaggero. Curioso il fatto che il “messaggio alato” che porta il virus è proprio il suo RNA messaggero, che tanto ricorda il serpente a spirale del caduceo che entra nella cellula umana per duplicarsi. Un codice di un singolo filamento alato, come un singolo serpente che ha bisogno dell’uomo per duplicarsi: non è forse l’uomo colui che in natura distingue gli opposti, che separa il bene dal male? Questo virus porta un messaggio che potrebbe esserne unica espressione. Come osserva Guggenbühl-Craig(5) , bene e male sono due categorie liquide, e gli antichi lo tenevano ben presente. Seguendo lo storico delle religioni Károly Kerényi(6) , nel mondo antico ad esempio “epidemia” voleva dire originariamente l’”arrivo nel paese” di qualcosa in grado di sopraffare la volontà dell’uomo, e poteva essere una malattia ma anche un dio, come Dioniso, dio della vita e della morte: cioè, un’epidemia era un evento sia positivo che negativo. Dioniso, in questo senso, liberava l’io dell’uomo dai vincoli che lo trattengono nella sua esistenza normale. Se pensiamo alla diffusione del Coronavirus come pandemia, cioè “attraverso tutto il popolo”, allora l’immagine è quella di un’esperienza che sconvolge la vita normale dell’uomo moderno. L’epidemia è stata in effetti un evento che ha posto all’attenzione il potere incontrollabile della vita e della morte biologiche, la vita come zoé, cioè “il principio, l’essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente, all’universalità di tutti gli esseri viventi e che ha come concetto contrario la non-vita e non, come si potrebbe pensare, la morte poiché questa riguarda il singolo essere che cessa, lui e soltanto lui, di vivere”(7) , sconvolgendo la vita dell’individuo umano, quella che i greci avrebbero piuttosto chiamato bios. “Pandemia”, allora, è un’esperienza che sconvolge la vita di tutti. La potenza di questa esperienza è proprio quella di Hermes che, velocissimo come solo lui sa fare, attraversa tutto il mondo e, per mezzo dell’uomo stesso, si fa archetipo messaggero che lo contatta per portargli un messaggio divino di vita e di morte, e per tornare a far parlare di sé, del divino stesso, ogni essere umano sulla Terra, attraverso una epidemia che improvvisamente cessa il mondo come l’abbiamo conosciuto e forse segna l’inizio di un nuovo mondo. Gli Dei sono diventati malattie, scrisse Jung; le malattie sono gli dèi che parlano, scrisse Hillman, e gli antichi greci nei loro miti dicevano chiaramente che sono i matti a poter parlare con gli dèi. E cos’è un sintomo, una malattia, se non una manifestazione dell’anima nel linguaggio simbolico del corpo? Cosa vogliono dirci i nostri dèi? È proprio attraverso i sintomi e la sofferenza che il Coronavirus fa parlare gli dèi della psiche.

Gli antichi greci avevano un mito anche sulla fine del mondo, il cui ordine era soprasseduto da Zeus. Essi credevano che dopo il tempo di Zeus ci sarebbe stato il tempo di Dioniso. “Io son Dioniso, generato da Giove”, scrive Euripide(???? . Forse questo è l’avvento dell’era di un dio nuovo, che nel tempo venne a rappresentare l’essenza spirituale della zoé greca, ossia l’esistenza intesa in senso assoluto, la frenetica corrente di vita che tutto pervade. Il Dioniso originario, legato alla vegetazione, rappresentava quell’energia naturale che, per effetto del calore e dell’umidità, portava i frutti delle piante alla piena maturità. Era dunque visto come una divinità benefica per gli uomini da cui dipendevano i doni che la natura stessa offriva tra questi: l’agiatezza, la cultura, l’ordine sociale e civile. Ma poiché questa energia tendeva a scomparire durante l’inverno, l’immaginazione degli antichi tendeva a concepire talvolta un Dioniso sofferente e perseguitato. Forse sarà proprio in questo senso che i doni della natura ci saranno d’ora in poi offerti, e il potere dei virus sarà quello di farci sentire sofferenti e perseguitati durante l’inverno, recuperando l’energia vitale e l’ordine civile e sociale con l’avvento della buona stagione. Saremo forse più sensibili al flusso energetico della natura e ai suoi effetti sul nostro sistema di vita, tanto quello sociale quanto quello psicologico soggettivo. Dioniso fu il dio dell’Olimpo che accolse con maggior entusiasmo il dio Pan, quando vi fu portato da Hermes (per alcuni suo padre), tanto che questi divenne uno dei suoi compagni prediletti. Insieme, Dioniso e Pan facevano scorribande attraverso i boschi e le campagne, rallegrandosi della reciproca amicizia. Pan, il dio abbandonato dalla madre inorridita per la sua bruttezza, somigliando più ad una capra che ad un uomo. Seguendo l’etimologia, Pan è per noi il dio del panico e della paura, il primo sintomo psicologico scatenato nel mondo dal Coronavirus. Ma Pan è il dio della natura, delle forze arcaiche e istintuali. Egli è presente in tutti quei comportamenti e quelle immagini intrisi di una forte connotazione terrena e tenebrosa. L’esperienza di Pan sfugge al controllo egoico della persona, ricordando che c’è dell’altro oltre l’io, qualcosa che può avere una forza tale da soverchiarlo e farlo cadere nel panico. E poiché gli dèi non vengono mai da soli(9) , Dioniso ci ricorda che c’è anche Pan che insieme a lui corre. Quando si perde il contatto con la natura, questa forza torna a noi sottoforma di un qualcosa di incontrollabile e sopraffacente. Nella nostra cultura, il dio caprino che personifica questo moto psichico ha preso il nome di Diavolo e puo’ essere visto come manifestazione del male. Pan allora si personifica in noi e, come lui, gridiamo spaventati per scaricare la nostra tensione e per avere conforto. Si manifesta quando viene a mancare l’ascolto di una voce interiore, che ci richiama al nostro mondo interno come a quello naturale. Pan ha lo scopo e la capacità di riconnettere ciò che è per noi bello e amorevole con ciò che è brutto e terrificante, ripugnante, doloroso ed imprevisto: in poche parole, l’istinto con la natura, il “dentro di noi” con il “là fuori”. Il disturbo di panico compare come esigenza di dare ascolto a questa voce interiore, di far parlare la propria anima, il cui discorso vuole portare alla coscienza la reale natura del problema sotteso all’ansia percepita. Uno dei modi per farlo è proprio riconnettere l’io con l’anima del mondo interno inconscio, e con quella del mondo esterno, l’anima degli altri e della natura, non il mondo esteriore delle apparenze: laddove il senso di vuoto e l’angoscia che il panico lascia è l’incapacità di trovare dentro di sé l’anima e i propri sentimenti, e che spinge a cercare all’esterno il senso della propria esistenza, confondendola con gli atteggiamenti esteriori piuttosto che con i contenuti e i significati che il mondo stesso ci offre. Il male del nostro secolo è quindi il narcisismo: siamo talmente dipendenti dalle conferme esterne per il mantenimento della nostra autostima che questo bisogno eclissa tutti gli altri, fino a farci sentire vuoti e incapaci di amare(10) . Molti psicoanalisti contemporanei (ad es. Fonagy, Liotti, Dimaggio e Semerari) mettono in primo piano la difficoltà a riconoscere i propri stati interni e le proprie emozioni, che si manifestano in una continua esplosione di sintomi e malattie ma che prontamente vengono cancellate da nuovi farmaci e trattamenti, e tendono così a rimanere sepolte nel “silenzio del corpo”, giusto perché non se ne vuole leggere e ascoltare il linguaggio simbolico. È altresì il nichilismo dei giovani d’oggi lo spaccato sociale che emerge e corrisponde a questo silenzio, nonché il risutato del senso di vuoto e dell’incapacità di trovare nei propri sentimenti la spinta a cercare il proprio posto nel mondo. Ed è nella grandiosità del progresso tecnologico e della scienza, e nel senso di autosufficienza dall’altro e dalla natura stessa, che l’uomo moderno trova i compensatori per barattare il senso della propria esistenza con il riempimento di quel senso di vuoto e inadeguatezza. Pan si manifesta improvvisamente nel mondo per costringerci a riconnettere l’io con l’anima mundi, quel mondo esterno della natura foriera di bellezza e malattie virali, e degli altri “noi” allo stesso modo portatori, nel contagio, del suo messaggio. Allora, il panico indotto dall’epidemia di Coronavirus è il messaggio dell’anima di riconnettersi ai propri istinti e al corpo come sua casa, nonché all’ambiente in cui si vive e al genius loci, che abitiamo e che non ascoltiamo. Pan ci chiede di ricongiungere la dicotomia psiche-corpo, cioè psiche-ambiente, nel far parlare il modo in cui noi stessi ci siamo da essi alienati e inaccettati, facendo parlare le esperienze negative, le emozioni, le energie, gli affetti che nell’ansia facciamo implodere in noi stessi. Ed è proprio la respirazione il sistema vitale che Pan fa parlare: il respiro affannato, il cappio alla gola, il dolore al petto, il soffocamento, la paura della morte sono tutti i sintomi che Pan manifesta nel nostro corpo laddove incontra una difficoltà a par parlare il messaggio di psiche. E la polmonite atipica da Coronavirus, qui, è il locus of control della nostra sofferenza nel mondo attuale.

La malattia è il linguaggio dell’anima

La medicina oggi è in grado di alleviare la maggior parte dei sintomi e delle patologie indotte da un danno o un fastidio a una parte del corpo, ma lo studio e la comprensione del perché qualcuno si ammali più di un altro, o manifesti alcuni sintomi e comportamenti diversi rispetto ad altri, resta sempre limitata al corpo stesso. Supponiamo che vi inizi a far male il petto con la tosse, o che vi venga la febbre. Un tampone del vostro sangue è in grado di dirvi con una certa probabilità se avete contratto il Coronavirus. Una radiografia è in grado di visualizzare l’estensione di un possibile danno ai polmoni. Se il tampone è negativo, un test degli anticorpi puo’ dirvi se avete contratto il virus in passato. Altri esami diagnostici sono in grado di rilevare eventuali infiammazioni o patologie negli organi circostanti. Ma non esiste ancora un test o una terapia in grado di visualizzare il vissuto affettivo ed emotivo che, nella propria psiche, accade insieme al sintomo lamentato nel corpo. Potremmo pensare di porci delle domande, ad esempio: Come mi sento in questa situazione? Perché ho contratto il virus, in quale circostanza è accaduto? Perché il virus si è in me manifestato violentemente rispetto a un’altra persona che conduce uno stile di vita molto più attivo e frenetico di me, ma che non lo ha nemmeno avvertito? Oppure, perché io invece non l’ho contratto? Perché mi trovo a fare un lavoro così esposto al virus, come l’infermiere o il cassiere di un supermercato, e non ho una paura costante del contagio come invece molti miei colleghi? Cosa rappresenta per me questa paura? Perché ho provato quell’attacco improvviso di ansia? Perché ho iniziato a dormire poco la notte, mentre altre persone che conosco dicono di dormire più di prima? Quale impatto hanno avuto le emozioni che ho provato in questo periodo sulla mia salute? E soprattutto, perché ho reagito in questo modo?

Queste sono solamente alcune delle infinite domande che molti di noi si sono posti, domande a cui la medicina moderna attualmente non puo’ rispondere. Il medico è infatti abituato a identificare il sintomo somatico con una patologia da estirpare, piuttosto che come il segnale di un problema di cui il paziente non è ancora cosciente, ma che in lui si manifesta per fargli attivare le risorse adeguate ad attuare un cambiamento nel suo ambiente o nel suo modo di interagire con gli stimoli ambientali. Per la psicologia dinamica, un sintomo è quindi l’espressione dei cosiddetti “nuclei di esperienza dissociati”, e rappresenta il tentativo di una connessione tra i sistemi di espressione verbali e quelli non verbali della persona. Ciò significa che quando viviamo una esperienza ad alto contenuto emotivo che non viene elaborata sul piano del logos, questa continuerà in qualche modo a “parlare” e ad esprimersi simbolicamente attraverso il corpo. Il sintomo è perciò un simbolo (σύμ-, “insieme” e βάλλω “getto”, letteralmente “mettere insieme”, “unire”) che mette insieme il linguaggio del corpo con quello dell’anima, e nella malattia li unisce. Laddove nel corpo la psiche “parla” e si manifesta, essa genera delle condizioni neurobiologiche “sensibili” a determinati stimoli ambientali a cui il soggetto si sottopone nella vita quotidianamente, senza tuttavia elaborarne verbalmente il vissuto affettivo e i relativi contenuti inconsci, allo scopo di farl integrare nella sua coscienza, facendo “parlare di sé”. È nel racconto della storia della malattia e dei suoi sintomi o simboli che è infatti nascosta la cura. La nascita di una medicina psicosomatica (ψυχή, “anima”, e Σώμα, “corpo”) evidenzia nel suo stesso nome il tentativo di ripristinare quel legame tra anima e corpo. Tuttavia ad oggi la medicina ortodossa mantiene una forte resistenza a questo lavoro, dato che gli specialisti in psicosomatica sono più che altro psicoanalisti specializzati totalmente sull’anima, e lo studio del corpo si riserva alle facoltà di medicina dove si continua a insistere sulla scissione delle due parti. Scrive Rüdiger Dahlke, “riabilitazione dalla malattia significa riprendere possesso della ‘casa fisica’, ‘arieggiare’ consapevolmente tutte le stanze, gli arti e gli organi: è questa la grande opportunità che ogni quadro clinico offre. Già l’analista Alexander Mitscherlich nel suo libro ‘Malattia come conflitto’ asserì che le malattie nascono per la sottrazione della coscienza da determinate zone del corpo. Ristabilimento e guarigione sono quindi dei passi di ritorno verso la casa corporea originaria”(11) . Per Dahlke, i quadri clinici rappresentano compiti, non colpe da espiare, retaggio quest’ultimo della concezione cristiana della malattia e della sofferenza in generale. La malattia, come diceva il filosofo francese Blaise Pascal, “è il luogo in cui si apprende”, e anche se per molti oggi il Coronavirus puo’ sembrare una catastrofe (κατά, “sotto”, e στρέϕω, “io volgo”, da tale verbo il sostantivo καταστροϕή, “capovolgimento”, “ribaltamento”) in senso negativo, ciò che siamo da lui chiamati a fare è capovolgere la nostra stessa visione del male e della malattia come un bene, un insegnamento, un messaggio di ritorno dell’anima nella sua casa cioè il corpo, e una richiesta di essere ascoltata nel suo linguaggio ovvero come malattia.

La polmonite atipica indotta da Coronavirus è il sintomo dell’infiammazione delle cellule dei polmoni che, una volta contratto il virus, puo’ diventare grave nel caso questi trovi una condizione psicosomatica pregressa di “allarme”, magari per stress o ansia accumulata, compromettendo il quadro clinico del paziente cosiddetto “immunocompetente”. Nel quadro clinico, il medico non vedrà altro che la stessa infiammazione già vista in centinaia di altri pazienti, da spegnere come un fosse un incendio causato dal virus e non curandosi del fatto che in realtà esso sia in parte doloso. L’anamnesi medica non è infatti in grado di valutare il disturbo nei possibili termini di tristezza, delusione, sconforto, dipendenza e così via, nonché nei termini di tutte quelle attribuzioni di significato che nel vissuto inconscio del paziente hanno cambiato il suo modo di vivere e pensare, fino a generare certi comportamenti nevrotici che hanno poi indotto, entrando in contatto con il virus, alla manifestazione del suo sintomo e alla disfunzione di un organo rispetto a un’altra persona. Benché la stragrande maggioranza dei pazienti contagiati dal Coronavirus manifesti sintomi lievi o assimilabili a quelli di un’influenza stagionale, una parte sviluppa una grave polmonite atipica con possibile insufficienza respiratoria. Il dieci percento dei pazienti, infatti, necessita del ricovero in terapia intensiva e il trattamento con un ventilatore polmonare. Chi sono questi dieci pazienti su cento? Cosa ha trovato e “contattato” in loro il Coronavirus al momento del contagio? Le statistiche testimoniano che l’infiammazione polmonare è più frequente tra i fumatori, tra le persone di età superiore ai 65 anni, nei portatori di altre malattie respiratorie e negli immunodepressi, ossia i soggetti con ridotte difese immunitarie. Altre indagini epidemiologiche mostrano che sono più a rischio di polmonite atipica tutti coloro che si trovano frequentemente a stretto contatto con persone affette dalla condizione in questione, come gli operatori sanitari ma anche coloro che convivono con persone immunodepresse. Qui emergono alcuni dati significativi che possiamo tornare a guardare come simboli dello stato psicologico delle persone ammalate di Coronavirus. La prima, è che lo stato del nostro sistema immunitario è una variabile fondamentale nello sviluppo dei sintomi del Coronavirus. La seconda è che il contagio è anche psichico nel momento che risulta più frequente nelle persone continuamente “esposte” all’interazione con quelle già immunodepresse. In ogni caso, il profilo psicosomatico che ne risulta è quella di un paziente immunodepresso, quello che comunemente anche i medici chiamano “stressato”. Ma precisamente, cos’è questo stress come principale causa dell’aggravamento delle condizioni da Coronavirus?

Oggi sappiamo che l’inibizione della risposta immunitaria è dovuta a una attivazione delle aree subcorticali dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, e che quest’asse si attiva quando siamo posti in maniera duratura ad uno stimolo “stressante”, producendo cortisolo, il cosiddetto “ormone dello stress”(12) . Uno stimolo stressante è rappresentato da una quantità di compiti emotivi, cognitivi o sociali percepiti dalla persona come eccessivi o indesiderati, cioè quando la risposta psicofisica non si adatta alla stimolazione ambientale. Lo stress è perciò identificabile nella condizione clinica che per gli psichiatri viene elencata come “sindrome di adattamento”, la cui diagnosi è caratterizzata dalla “presenza di sintomi emozionali o comportamentali in risposta a uno stressore identificabile”, inteso qui come stressore “un singolo evento (es. la fine di una relazione romantica) o multipli (es. marcate difficoltà economiche e problemi coniugali)”, che “possono accadere con una frequenza ricorrente (es.in associazione a una crisi economica stagionale, a relazioni sessuali insoddisfacenti) o continua (es. una malattia dolorosa persistente con un incremento della disabilità, vivere in un quartiere ad elevata criminalità)”. E ancora, “Gli stressori possono interessare un singolo individuo, un’intera famiglia, un gruppo più grande o una comunità (es. un disastro naturale). Alcuni fattori di stress possono accompagnare gli sviluppi di specifici eventi (ad es. andare a scuola, lasciare la casa dei genitori, rientrare nella casa dei genitori, sposarsi, diventare genitore, il fallimento nel raggiungimento gli obiettivi professionali, la pensione)”(13) . È perciò ampiamente dimostrato come la nostra condizione fisica sia strettamente collegata agli eventi che viviamo e a come reagiamo affettivamente ad essi, nonché dalle persone con cui viviamo e della società, laddove la malattia ci parla della nostra capacità di adattamento alle sollecitazoni emotive che da essi riceviamo quotidianamente. Jung ci dice che “è nell’intensità del disturbo affettivo che si trova il valore, cioè l’energia, di cui il paziente dovrebbe poter disporre per eliminare la sua condizione di adattamento ridotto. Rimuovere questa condizione, o svalutarla con argomenti razionali, non ci aiuta a progredire affatto”(14) . Perciò “non è aggirando o rimuovendo gli stati d’animo spiacevoli che si raggiunge la vera liberazione, bensì vivendoli, subendoli fino in fondo”(15) . La “crisi” dell’individuo si manifesta nel quadro di un dis-adattamento alla sua stessa vita sociale e al suo rapporto con la natura, ed è allora interpretabile come il suo quadro clinico, e appare legata a sintomi che rappresentano le “prove” e i compiti che la vita stessa gli preserva sottoforma di malattie, e che il corpo gli prescrive nel linguaggio dell’anima. È una crisi dell’anima stessa, che costantemente preme con le sue immagini e i suoi messaggi virali sul nostro corpo per essere vista e compresa, per forzarci ad accogliere il suo codice, le sue leggi, e per obbligarci a cogliere il suo telos, la sua direzione, il suo significato.

Dall’anima individuale all’anima del mondo

L’attuale crisi mondiale rispecchia la nostra crisi interiore, perché è una crisi del significato di ciò che siamo e di ciò che facciamo nel mondo, poiché è di questo che l’anima parla. La pandemia che stiamo vivendo è in primo luogo una faccenda sanitaria, in cui è importante conoscere le caratteristiche biologiche del virus e la nostra capacità di reagire e immunizzarci. Ma è anche una faccenda sociale e politica, in cui ne va della capacità di riorganizzazione della società nei protocolli attualmente in discussione, ed è importante adesso ascoltare gli “anticorpi culturali” che le parole utilizzate in questo discorso planetario fanno inavvertitamente rilasciare nei nostri pensieri e nelle nostre emozioni. Parole come crisi, da κρίσις, “separazione”, o emergenza, da emergĕre, “venire alla superficie”, già da sé posseggono le immagini che parlano della scissione dal corpo che la nostra anima soffre, e del percorso del suo logos che in esso il sintomo rappresenta. Spostando invece la nostra attenzione sulla vita esteriore, ad esempio cercando nel mondo la posizione, la reputazione, il successo o il denaro, perdiamo di vista l’esistenza interiore, laddove l’anima ci spinge invece verso il nostro benessere con le sue immagini e i suoi significati. Perdiamo di vista anche l’ambiente in cui viviamo, per cui questo virus ci sta dimostrando che il nostro sistema moderno di vita non è sostenibile, e che la natura, se vuole, puo’ farci sparire in pochissimo tempo.

Altrettanto velocemente siamo stati chiamati a riorganizzare le nostre vite e ad adattarci a un cambiamento imposto dal basso, dal microcosmo, da una forma di vita del mondo invisibile che minaccia di toglierci il respiro e di affogarci. Chi ha studiato biologia, come chi non l’ha fatto ma semplicemente non ha perso lo sguardo verso le cose invisibili del mondo, riconosce che ogni evento naturale, ivi inclusa la nostra esistenza come quella di un virus, fa parte di un unico ecosistema che continuamente si autoregola per mantenere una certa omeostasi, ovvero un equilibrio tra tutte le parti. Il nostro mondo invisibile, i nostri dèi oggi hanno preso il sopravvento, e siamo chiamati ad ascoltare il loro messaggio e a dargli l’importanza che gli avevamo negato. Negando l’inquinamento, i disastri ambientali, le torture inflitte agli animali e agli esseri umani, non curandoci del cambiamento climatico ormai arrivato a livelli quasi irreversibili, la Cina davanti e tanti paesi a seguire, tra cui il nostro. È di oggi, mentre scrivo, la conferma dell’ipotesi che il Coronavirus venga trasportato dal particolato atmosferico (PM10), maggiormente emesso nell’aria dai siti industriali e dai veicoli a motore come principale forma di inquinamento atmosferico: la “prima prova che l’RNA del SARS-CoV-2 può essere presente sul particolato in aria ambiente, suggerendo così che, in condizioni di stabilità atmosferica e alte concentrazioni di PM, le micro-goccioline infettate contenenti il coronavirus SARS-CoV-2 possano stabilizzarsi sulle particelle per creare dei cluster col particolato, aumentando la persistenza del virus nell’atmosfera come già ipotizzato sulla base di recenti ricerche internazionali”(16) . Questo virus, come sintomo dell’anima del mondo, significa il blocco stesso a cui siamo stati costretti per sopravvivere: mentre il capitalismo fallisce e l’economia collassa, l’inquinamento si normalizza in Cina e nel nostro paese, portando il virus a regredire poiché il suo messaggio è stato finalmente ascoltato con la sua ”emergenza”, cioè dopo essere emerso dal mondo invisibile alla superficie essendosi sviluppato in malattia globale a causa della nostra incuranza.

Parlo proprio dell’incuranza per il mondo invisibile, quello dei fenomeni naturali dai quali virus proviene, come quello costituito da tutto ciò che ogni momento ci accade e che accade intorno a noi senza che noi ce ne accorgiamo, ma di cui inevitabilmente subiamo gli effetti e le dirette conseguenze delle nostre azioni su di esso. Questo è il mondo del nostro inconscio, quello personale fatto del codice genetico e delle sue infinite funzioni del corpo e della mente, fatto cioè di tutto ciò che in noi già esiste e accade ma che non sentiamo e non conosciamo. E tutto ciò puo’ emergere alla coscienza d’improvviso, sottoforma dei sintomi di un raffreddore o di emozioni incontrollate, o nelle immagini di un sogno, o ancora nella sensazione di qualcosa che era lì dentro da tempo ma che fino a un momento fa ignoravamo. Questo è anche il mondo dell’inconscio collettivo, quello a cui ogni inconscio personale è collegato e in cui è immerso assieme a tutti gli altri, quello che come specie umana ci rende un unico organismo vivente, un sistema-mondo, e che fa diventare l’esperienza di un altro essere vivente una nostra conoscenza, che fa risuonare la tristezza di un’altra persona nel nostro corpo, che influenza della scelta di uno il destino dell’altro. Per averla esclusa della nostra vita, questa “influenza”, che da in-fluére significa “scorrere dentro”, “insinuarsi”, è diventata virale e ha iniziato a scorrerci dentro anche in coloro che non sono stati fisicamente contagiati dal virus, insinuandosi comunque nelle vite di tutti. L’influenza dell’anima sul nostro corpo siamo oggi costretti a viverla come virale: come qualcosa di pericoloso che ci puo’ contagiare in qualsiasi momento, e che portiamo dentro senza rendercene conto, influenzando pure gli altri. Eppure questo è stato da sempre anche il nostro potere, quello infuenzare l’ambiente e gli altri esseri umani con il nostro pensiero e il nostro comportamento, ma solo oggi , costretti a curarci e adottare misure per salvarci, noi esseri umani capiamo la pericolosità e il danno del potere che ci è sempre appartenuto ma che avevamo rimosso, ad esempio tagliando enormi foreste e incendiando il mondo, uccidendo gli animali e inducendo loro sofferenze illimitate, inquinando l’aria e rendendola portatrice di morte. Questo è il potere della natura come della nostra psiche, come mondo invisibile e inconscio che portiamo dentro e che abbiamo a lungo ignorato. In una società in cui siamo stati educati a non pensare al nostro mondo interiore, a cancellare coi farmaci i suoi segnali e ad educare i nostri figli al successo e al profitto individuale, a pensare a se stessi a scapito dell’altro, questo virus ci ha mandato un messaggio chiaro: dobbiamo riprenderci la nostra responsabilità per gli altri, recuperare il nostro senso civico interno, l’inconscio collettivo che determina il senso di appartenenza alla comunità, che oggi non è solo una famiglia, una squadra di calcio, una città o una nazione, ma è il mondo intero. Il virus ci obbliga a sentire che c’è un collettivo di cui facciamo parte, c’è qualcosa di invisibile e di più grande di cui prendersi cura oltre che della nostra casa e dei nostri beni di lusso, qualcosa che a sua volta si prende cura di noi: l’ambiente in cui viviamo. Questo virus ci impone la responsabilità condivisa che abbiamo trascurato, ci spinge a sentire che dalle azioni di un singolo dipendono le sorti del mondo. In una società fondata sulla produttività e sul consumo, in cui tutti correvamo tutto il giorno dietro ai nostri ideali di benessere e successo, senza onorare le feste e i rituali, da un momento all’altro la natura ci impone di fermare tutto. Fermi, a casa, giorni e giorni. Questo virus ci obbliga a riflettere sulle scelte che finora abbiamo fatto. Ad esempio, ci offre l’opportunità di rimettere insieme mamme e papà con i propri figli, di rifare la famiglia, di conoscere i propri vicini di casa e di collaborare con loro. Limitandoci al nostro temenos, ci invita a recuperare la capacità di fare il pane in casa e di coltivare il proprio orto. Oppure, ci invita a passare il tempo insieme con il già conosciuto, con chi non eravamo più abituati a stare a furia di desiderare sempre il nuovo e il diverso nel tentativo di colmare il vuoto interiore, e a lasciarci “contagiare” dalla loro anima. Ci dà l’occasione di recuperare il tempo, di cui avevamo perso il senso in questo eterno scappare da noi stessi e dall’anima del mondo.

Qui il senso della quarantena è quello di una cura dell’anima individuale come collettiva: un periodo di introversione e incubazione, in cui siamo tutti chiamati ad elaborare e trasformare i sintomi della depressione che il panico iniziale ha lasciato in nuovo significato da attribuire agli eventi che sono accaduti a noi internamente quanto nell’ambiente. Le immagini di devastazione che abbiamo sofferto negli ultimi mesi sono state foriere di una depressione dell’anima del mondo, e qui è importante capire, per usare le parole di Hillman, che “la depressione è un’affezione endemica collettiva e noi la sentiamo e pensiamo che sia soltanto dentro il nostro cervello. ‘Nella… mia famiglia, nel mio matrimonio, nel mio lavoro, nella mia economia’… Abbiamo portato tutto questo dentro un ‘me’. Invece, se c’è un’ anima mundi, se c’è un’anima del mondo – e noi facciamo parte dell’anima del mondo – allora ciò che accade nell’anima esterna accade anche a me, e io avverto l’estinzione delle piante, degli animali, delle culture, dei linguaggi, dei costumi, dei mestieri, delle storie… Stanno tutti scomparendo. Per forza la mia anima prova un sentimento di perdita, di solitudine, di isolamento, di lutto, e di nostalgia, e di tristezza: è il riflesso in me di una condizione di fatto. E se non mi sento depresso allora sì che sono pazzo! Questa è la vera malattia! Sarei completamente escluso dalla realtà di quello che sta succedendo nel mondo, la distruzione ecologica”(17) . Altreattanto, le immagini che ci offre oggi il Coronavirus sono simboli dell’incoscio che, come immagini archetipiche, racchiudono tutta una gamma di significati che costellano la nostra vita intrapsichica, la quale a sua volta agisce sul corpo e facendoci agire nella dimensione fisica del mondo. La nostra crisi è quindi anche una crisi del mondo stesso, perché, dice Hillman, “ciò che è archetipico appartiene a tutta la cultura, a tutte le forme dell’attività umana”(18) . Il Coronavirus è allora un archetipo del messaggio dell’anima del mondo che ci comunica le sue leggi e la sua psicologia. Nell’alchimia, per indicare il processo di allontanamento dalla natura, si parla di opus contra naturam, un concetto chiave per la comprensione psicologica degli eventi psichici, in contrasto con quella naturalistica. Nel processo di individuazione, dice Jung, “il passaggio dall’archetipo della Madre a quello dell’Anima rappresenta proprio questo cambiamento di prospettiva dalla visione naturalistica a quella psicologica. Animus e anima, appunto in quanto archetipi, sono almeno per la metà grandezze collettive e impersonali… ». Da una società moderna inflazionata dall’archetipo del Puer e unilateralmente dipendente da una Mater Naturam sempre più sfruttata e maltrattata, improvvisamente emerge l’archetipo dell’Anima indicando una strada obbligata da seguire. Già Jung si rammaricava del fatto che “l’uomo ha smesso di essere microcosmo e immagine del cosmo, e la sua ‘anima’ non è più la scintilla consustanziale di questo né una scintilla dell’anima mundi”(19) . Qui il rapporto tra anima personale e anima del mondo non esiste come relazione tra due anime separate, né da un punto di vista sistemico-relazionale e né archetipicamente, ma come entità costantemente in contatto (potremmo dire “attraverso l’aria” usando l’immagine che ci offre il virus) al punto da non poterle oggi più distinguere. Spiega Hillman: “Noi perdiamo il significato più ampio dell’Anima poiché la consideriamo da un punto di vista personalistico, o perché lei stessa inganna l’io in tal senso. La perdita dell’anima avviene anche quando siamo impegnati al massimo nel tentativo di raggiungerla: nello ‘sviluppo della mia Anima’ tramite il rapporto, la creatività e l’individuazione. Finché non riusciremo a intendere l’ ‘interiorità’ in un modo radicalmente nuovo – che equivale al vecchio modo classico – continueremo a perpetuare la scissione tra la nostra Anima e l’Anima del mondo (la psiche oggettiva). Quanto più la concentriamo all’interno e interpretiamo in senso letterale l’interiorità come qualcosa che è dentro la nostra persona, tanto più perdiamo il senso dell’anima come realtà psichica esistente in tutte le cose. Dire che l’Anima è ‘dentro’ non significa che sia soltanto nel mio petto; parlare di introiezione e di internalizzazione non vuol dire che la mia testa o la mia pelle siano l’involucro entro cui avvengono tutti i processi psichici. Il ‘dentro’ si riferisce a quell’atteggiamento caratteristico dell’Anima che percepisce la vita psichica dentro la vita naturale. Allora la stessa vita naturale diventa il luogo contenente, nel momento in cui riconosciamo che ha un suo significato inferiore e ci rendiamo conto che anch’essa è generatrice e portatrice di una dimensione psichica. L’Anima, proprio con il suo entrare dentro, crea sempre e dovunque dei luoghi che la contengono. E tutto questo avviene grazie all’immaginazione. I fenomeni prendono vita e diventano portatori di anima per mezzo delle nostre fantasie su di essi; se non facciamo alcuna fantasia sul mondo, esso è soltanto oggettivo, è morto. Anche le fantasie di inquinamento riportano il mondo alla vita, dato che hanno un significato per l’anima. L’attività immaginativa non è semplicemente un processo inferiore che si svolge nella mia testa: è un modo di essere nel mondo e di ridare anima al mondo. Invece, il tentativo di estrarre l’anima dalla vita esterna priva il fuori del suo ‘dentro’, rende la persona sentimentalmente soggettiva e riduce il mondo, da cui sono state ritirate tutte le proiezioni, le personificazioni e la stessa psiche, a un ammasso di scorie. Per questa ragione, quanto più ci dedichiamo in nome dell’Anima alla nostra personalità e alla nostra soggettività, tanto meno facciamo anima, continuando a coltivare l’illusione che l’Anima sia in noi piuttosto che noi in essa”(20) .

Da qui il concetto di anima mundi come principio unificante e vitalizzante della complessità del cosmo, l’ininterrotta connessione atomica di tutto l’esistente, l’unità che ha caratterizzato il pensiero sistemico ed ecologico. L’esperienza collettiva che subiamo in questo momento storico e sociale sottoforma dell’emergenza e del quadro clinico da Coronavirus ci permette individualmente di capire il profondo messaggio dell’anima del mondo, attraverso la personale relazione organi-emozioni e l’interpretazione simbolica che di essa cogliamo. Qui la polmonite, i problemi di respirazione, la paura della morte, il malessere psicologico, sono sì i segni dell’incrinata armonìa del nostro organismo con l’organismo-mondo, e impegnarsi a far scomparire questi segnali con medicine e trattamenti senza attraversarli e farsi da essi attraversare, viverli e “subirli fino in fondo” come dice Jung, significa ignorare il segnale di allarme, rischiando di trovarci ancora nel bel mezzo di una nuova infezione virale, ciò analogo a quanto fanno coloro che inghiottono farmaci senza cercare di capire quale sia l’origine del segnale, nonché il contenuto del suo messaggio. Ciò non significa che non siano fondamentali le precauzioni e il trattamento proposto dal medico, che potrebbero sì salvarci la vita: qui significa il non limitarsi a voler cancellare il virus o a voler far scomparire i suoi sintomi, senza voler ripristinare anche ciò che ha potuto causare lo sviluppo e l’aggravamento della malattia respiratoria facendo sviluppare gli effetti negativi del virus nel nostro corpo fino a farci morire, invece di farci sopravvivere immunizzati. Abbiamo visto come sia evidente che la causa della sofferenza e dell’aggravarsi di ogni decorso patologico vada ben oltre la patologia diagnosticata, e sia un compito nostro, quello di interpretare i messaggi dell’anima, soprattutto nei casi in cui una malattia si aggravi o si ripresenti insistente o in un’altra forma e nonostante aver preso medicine o aver seguito una terapia. Entra qui in campo il ruolo del “curatore dell’anima”, lo psicoterapeuta, che nella psicoanalisi puo’ coadiuvare questo processo con la psicologia, letteralmente facendo parlare l’anima stessa.

Far parlare l’anima è la cura

“Si incomincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia? (Emanuele Severino)(21) .

Resta evidente che solo una psicoterapia come “terapia dell’anima” possa oggi curare la sofferenza dell’uomo e del mondo intero, e lo possa fare attraverso la parola, cioè dando una forma cosciente e un significato a ciò che risiede nel nostro inconscio e che si manifesta nel corpo sottoforma di malattia, ma dando anche un significato a tutto ciò che contemporaneamente accade nell’ambiente in cui viviamo. Ciò puo’ cominciare già nella stanza dell’analisi, laddove “non si puo’ influenzare se non si è influenzati”, come scriveva Jung a proposito della traslazione tra analista-paziente(22) . Ma oggi l’influenza reciproca è quella con l’anima del mondo, rispetto al quale siamo tutti pazienti. Qui il transfert è il processo di trasferimento inconsapevole dei sentimenti, delle emozioni e dei pensieri di sofferenza e alienazione di ogni signolo cittadino nella relazione significante trascorsa con la madre-natura. Cittadino che si trova oggi coinvolto a dover elaborare con essa la contro-traslazione di un virus come rappresentazione simbolica dei contenuti dell’ambiente contaminati dall’uomo in una relazione interpersonale uomo-ambiente di contagio psicologico e reciproca infezione.

Nella psicologia archetipica, la nozione di anima è posta da James Hillman come principio primo e complementare ai tutti i principi tradizionalmente inclusi nelle prospettive del corpo (materia, natura, mondo empirico) e della mente (spirito, logica, idea)(23) . L’anima come tertium non datur è una prospettiva ‛tra’ le altre due, e dalla quale le altre possono essere osservate. Abbiamo dimenticato che la prospettiva animica è stata descritta, da Plotino fino a Jung, come “esse in anima”(24) , per cui non è l’anima che sta dentro il corpo, ma è il corpo che sta dentro l’anima, che si trova ubiquitosamente in ogni luogo. È questa la posizione del mundus imaginalis di Corbin e da quei neoplatonici che hanno scritto sugli intermediari e sulle figure del metaxy platonico. “Corpo, anima, spirito: quest’antropologia tripartita è un elemento di separazione della psicologia archetipica dalla consueta divisione dualistica cartesiana, le cui conseguenze si fanno ancora sentire nel fatto che la psiche, intesa come anima, da allora è diventata indistinguibile per un verso dalla vita corporea e per un altro dalla vita dello spirito. Nella tradizione dualistica la psiche non ha mai avuto il suo proprio logos, nè quindi poteva esserci una vera psicologia”(25) . Nello scenario conteporaneo, la psicologia archetipica rappresenta perciò il primo tentativo metodologicamente coerente di articolarne una. James Hillman riteneva che gli archetipi potessero ammalarsi o far ammalare le persone, e per questo la psicologia archetipica si propone di conoscerli per diventare, in un certo senso, consapevoli degli archetipi, e non più vittime inconsapevoli. “Oggi la patologia la si incontra nella psiche della politica e della medicina, nella lingua e nel design, nel cibo che mangiamo. Oggi la malattia è – là fuori -“(26) . Se la psicoanalisi classica si è occupata dei pazienti elaborando i contenuti del mondo interiore ad essi e considerando l’esterno e l’altro più che altro come luogo di proiezione del disagio soggettivo, la psicologia archetipica ci chiama oggi, come il Coronavirus, a occuparci del mondo “la fuori”. Dice Hillman che la psicoanalisi deve andare là fuori, deve uscire dalla finestra della stanza d’analisi. Allora il fare anima della psicoanalisi non è più quello iniziale, ispirato dall’idea romantica del fare anima nella propria soggettività, curando questo o quel paziente, ma si tratta oggi di curare il mondo, in una circolarità dei processi psichici relazionali. Secondo Jung, l’attività autonoma della psiche è un processo costantemente creativo, laddove la psiche crea ogni giorno la realtà attraverso l’immaginazione. Esse est percipi, ovvero noi stessi creiamo il mondo ogni volta che immaginiamo, riprendendo il concetto già espresso dal filosofo Berkeley. Scrive Giorgio Antonelli che “l’anima dunque transita, e nel suo transitare, l’anima “domanda” ovvero “manda in qualche luogo”. […] La successione dei luoghi dell’anima è il regno dell’immaginazione. Abbracciare una visione del mondo significa crearlo e farsi suo demone, assumersi la sua responsabilità, perché uno lo crea e lo ricrea ogni volta che lo immagina”(27) .

Il Coronavirus è allora immagine dell’anima del mondo, che è transita in ogni luogo immaginale e ci domanda di re-immaginare il mondo che vogliamo abitare, e nel farlo, in quello stesso luogo ci manda. Siamo stati chiamati ad assumerci questa responsabilità, e la psicologia archetipica come linguaggio dell’anima puo’ ancora una volta aiutarci a comprendere qual è il telos di questo grande transito, forse un cambiamento epocale verso una nuova era del mondo. Se una nuova stirpe di divinità olimpe trovò in Zeus il sovrano e vincitore indiscusso della guerra contro Crono, il dio del Tempo dai torti pensieri, e contro i Titani, le prime divinità individualizzate che non erano più gli elementi primigeni della natura, ma ne rappresentavano incarnazione delle sue potenti forze, le astuzie di Zeus non sono più sufficienti a garantire l’armonìa e l’equilibrio che hanno regnato tra queste forze e l’uomo fino ad oggi. Forse è davvero giunta l’era di Dioniso. Che nel linguaggio immaginale dell’anima, attraverso i suoi vari epiteti, veniva detto il Bromio, “il rumoroso”, “il fragoroso”, “colui che strepita” in riferimento alla sua apparizione caotica, ma anche “il frusciante” per la sua presenza percepita dallo stormire del fogliame sacro e dal mormorio della foresta. Dioniso il Dendreus “dio-albero” o Dendrites, “protettore degli alberi”. Dioniso definito l’Arboreo, portando in sé il potente elemento vegetativo e fecondatore di cui la Terra ha forse oggi bisogno. E ancora il Dioniso Agatodèmone, l’appellativo di “salvatore dalla peste”, oppure Lieo, “il liberatore dell’uomo”, e anche Lisio, “colui che scioglie”, cioè che libera l’individuo dalla limitata dimensione umana. Il Dioniso Nato-due-volte, cioè dal ventre di Semele e dalla coscia dello stesso Zeus, dove egli accolse il feto estratto dalla madre, folgorata dopo essersi avvicinata troppo al dio per vederlo in tutto il suo splendore. Forse l’avvento di Dioniso significherà la nostra ri-nascita, forse le nuove generazioni vorranno finalmente cambiare il mondo e porre fine all’inganno con il quale finora noi mortali ci siamo troppo avvicinati alla luce divina, cioè al potere della natura, restandone folgorati. La folgore è causa scatenante, dice Jung, è Hermes lo “spirito animante”, “la sfera con il centro rosso vivo e il lampo dorato” che come deus ex machina coglie di sorpresa la nostra coscienza, e in un baleno spinge l’io da parte per far spazio a un fattore sopraordinato: la totalità dell’uomo tra coscienza e inconscio e il mondo come un tutt’uno(28) . Il Coronavirus, nel linguaggio dell’anima mundi, è proprio questa corona di luce solare, la folgore di Zeus che tramite Hermes suo messaggero attraversa l’aria per segnalarci il limite oltrepassato e il nuovo ordine imposto. In questo mondo che si autocura all’infinito, come scrive Antonelli (29), questo virus è forse il transito e l’attraversamento dell’anima dall’uomo pneumatico, l’uomo demonico dal polmone malato, a un uomo psichico che troverà nella poiesis una cura per tutto ciò che il mondo sta oggi soffrendo, e che ha già iniziato raccontando la sua storia.

Riferimenti Bibliografici:

(1) C. G. Jung, Empiria del processo di individuazione, in Opere 9*, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Boringhieri 2007, pg.287.

(2) C. G. Jung, ibidem, pg.304.

(3) Eraclito, frammento 45, trad.it. in G.Gentile, Storia della filosofia. Dalle origini a Platone, Le Lettere 2003, pg. 51-59.

(4) C. G. Jung, Empiria del processo di individuazione, in Opere 9*, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Boringhieri 2007, pg.315-316.

(5) A. Guggenbühl-Craig, Il bene nel male: paradossi del senso comune, Moretti & Vitali, 1998.

(6) K. Kerényi, Dioniso: archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, 2010.

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(???? Euripide, Le Baccanti, SEI, 1990.

(9) J.Hillman, La vana fuga dagli dei, Adelphi, 1990.

(10) N. McWilliams, La diagnosi psicoanalitica. Seconda edizione, Astrolabio, 2012.

(11) R. Dahlke, Malattia come simbolo, Mediterranee, 2005, pg.35.

(12) I. Kranner, F. V. Minibayeva, R. P. Beckett, C. E. Seal, What is stress? Concepts, definitions and applications in seed science, New Phytologist, 2010, 188(3), pg.655-673.

(13) American Psychiatric Association, Diagnostic and statistic manual of mental disorder – DSM 5, APA Publications, 2013, pg. 287.

(14) C. G. Jung, La funzione trascendente, in Opere 8, La dinamica dell’inconscio, Boringhieri 2007, pg.97.

(15) C. G. Jung, Empiria del processo di individuazione, in Opere 9*, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Boringhieri 2007, pg.325.

(16) G. De Gennaro, fonte agi.it, notizia del 24/4/2020.

(17) J. Hillman, intervista con Silvia Ronchey.

(18) J.Hillman, Psicologia archetipica, in Enciclopedia del Novecento, Treccani, 1980.

(19) C. G. Jung, Commento psicologico al Libro tibetano della grande liberazione, in Opere 11, Psicologia e religione, Boringhieri 1979, pg. 491.

(20) J. Hillman, Anima, in Spring Publications, 1973, trad.it. di L. Baldaccini e G. Baldaccini.

(21) E. Severino, Essenza del Nichilismo, Paideia, 1972, pg.313.

(22) C. G. Jung, I problemi della psicoterapia moderna, in Opere 16, Boringhieri, 1981, pg.80.

(23) J.Hillman, Psicologia archetipica, in Enciclopedia del Novecento, Treccani, 1980.

(24) C. G. Jung, Psychological types, Collected Works 6, Princeton University Press, 1992, pg. 66,77.

(25) J. Hillman, ibidem.

(26) J. Hillman, Anima mundi, in L’anima del mondo e il pensiero del (28) C. G. Jung, Empiria del processo di individuazione, in Opere 9*, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Boringhieri 2007, pg. 288, 295-296.

(27) G. Antonelli, L’angelo sceso sulle labbra. Discorso sull’ethos dell’immaginazione attiva, in Il linguaggio della Psiche, Quaderni di Psicologia Archetipica vol.1, Porto Franco, L’Aquila, 2012.

(28) C. G. Jung, Empiria del processo di individuazione, in Opere 9*, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Boringhieri 2007, pg. 288, 295-296.

(29) G.Antonelli, Introduzione alla gnosi di Hillman, in Omaggio a James Hillman, Quaderni di Psicologia Archetipica vol. 2, Porto Franco, L’Aquila, 2014.

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