Lasciare il posto fisso per trovare se stessi: verità o illusione?

Nel 2021 48 milioni di persone negli Stati Uniti, e circa 800.000 in Italia, hanno rassegnato spontaneamente le loro dimissioni da un posto fisso. Numeri da record, che non si erano mai registrati prima. E non solo: secondo alcuni studi, nei prossimi anni il 40% dei lavoratori dipendenti in Occidente lascerà il lavoro spontaneamente. Di quelli che lo hanno già fatto negli Stati Uniti, il 36% non aveva nessun’altra opportunità professionale tra le mani. Dall’inizio della pandemia, il numero degli under 40 che in Italia ha deciso di licenziarsi è aumentato del 26%. Ma il fenomeno delle “great resignation” è trasversale a tutte le fasce d’età e racconta un paese alla ricerca di un maggior equilibrio tra vita privata e lavoro. Un cambiamento che potrebbe rimodellare anche il concetto di leadership e, più in generale, di identità sociale e culturale. Forse l’anima dell’uomo sta reclamando attenzione, e stiamo cambiando il nostro modo di vedere la realtà e cercare la nostra realizzazione. Tutto questo dove puo’ portarci?

Le dimissioni sono un vero e proprio salto nel buio, considerando anche che chi si dimette non ha diritto all’indennità di disoccupazione, e che l’approdo a un altro lavoro non è scontato. Secondo Luigi Manfra, docente di politica economica all’Università Sapienza di Roma, qualora l’incremento delle dimissioni dovesse consolidarsi, ci sarebbero effetti molto positivi sul sistema economico italiano (Il Fatto Quotidiano, 20/05/2022). Qui la prima domanda cruciale è: cosa fanno i lavoratori dopo le dimissioni? I dati che emergono da alcune analisi preliminari mostrano che coloro che lasciano volontariamente il lavoro, oltre a essere in significativa crescita rispetto al periodo pre-pandemico, trovano lavoro più rapidamente e più frequentemente, e si spostano in un settore o in una professione diversi da quelli di provenienza. La ricerca di un lavoro più qualificato porterebbe sia a un aumento dei salari che a un contemporaneo incremento della produttività, avviando una fase più dinamica dell’economia e del mercato del lavoro. In pratica, qualora ci sia una possibilità di un lavoro più qualificato, dare le dimissioni in questo momento sembrerebbe poter fare bene sia alla carriera del lavoratore che alla stessa economia.

Il fenomeno della crescita della dimissioni dei lavoratori dipendenti tuttavia non sembra corrispondere necessariamente a un passaggio ad altra occupazione, quanto piuttosto un allontanamento permanente dal mercato del lavoro. L’impianto del lavoro “tradizionale” fortemente gerarchizzato e basato su performance e produttività ha iniziato a scricchiolare e oggi, dopo due anni di pandemia, è in atto una trasformazione che lo scuote nelle fondamenta. Se dopo i mesi delle “grandi dimissioni” negli Usa si è attualmente aperta la caccia ai talenti nel mondo del lavoro, gran parte delle lavoratrici e dei lavoratori scelgono di non passare direttamente ad un altro impiego e quindi, sostanzialmente, danno l’impressione di aver deciso per un cambiamento di vita radicale, a partire dal proprio lavoro. Abbandonare il certo per l’incerto, se prima sembrava qualcosa da pazzi o da soggetti spiantati, è una realtà attuale. Vediamo di capire meglio il fenomeno in base ai dati recentemente raccolti in campo psicosociale.

La verità che stiamo tutti sperimentando anche su noi stessi, è che la pandemia è durata un tempo sufficientemente lungo per incubare le patologie sociali e per mettere in discussione l’immagine di ciò che è “normale” e culturalmente condiviso. Trovandosi fortemente sotto stress le persone, sia come individui che nelle relazioni umane e sociali, le famiglie, e ovviamente il lavoro, la pandemia ha segnato un passaggio epocale per un fenomeno già cruciale dei tempi, dei luoghi e delle condizioni della vita moderni, quello del capitalismo. Tutti questi aspetti sembrano entrati ora sotto esame: inevitabilmente sono stati posti in discussione da ogni singolo individuo nella fattispecie del suo vissuto quotidiano, per cui si può supporre che questo incremento delle dimissioni sia necessariamente collegato alla sofferenza indotta sì dalla pandemia, ma come essa stessa conseguenza di uno stile di vita e di una cultura fondamentalmente basati su presupposti patologici e disumani.

Secondo il Presidente dell’Ufficio studi Legacoop, “la pandemia ha cambiato le vite di tutti e probabilmente non solo il modo di vivere ma anche le priorità, le speranze, gli obiettivi e i comportamenti economici e sociali”. Negli Stati Uniti, in cui il fenomeno si è mostrato prima e su grande scala, sembra che il motivo prevalente delle dimissioni non sia infatti la retribuzione. Un po’ ovunque, in questo periodo, stanno emergendo altri aspetti che vengono presi in considerazione, che riguardano la qualità del lavoro e della vita, il bisogno di soddisfazione, di autorealizzazione, di crescita sociale e personale, e di una maggiore libertà. Lo sforzo e la preoccupazione dei mesi passati, il lavoro da remoto, la dad, hanno spinto le persone a cercare un nuovo senso a ciò che fanno e alla propria vita. Da una recente ricerca AreaStudi Legacoop-IPSOS emerge che sempre di più al proprio lavoro, oltre ovviamente al reddito, si chiede stabilità personale, crescita, “realizzazione”. I momenti di crisi sono proprio quelli in cui ci si fa delle domande sulla propria felicità, forse è ciò che sta avvenendo. Ma cosa significa essere realizzati oggi nel lavoro?

Per la generazione del dopoguerra il lavoro era il mezzo del riscatto da una situazione di povertà e dipendenza dalla famiglia patriarcale nella quale si era più o meno comandati a bacchetta. Il posto di lavoro e lo stipendio hanno rappresentato il modo di affrancarsi e poter realizzare i propri sogni costituti, per la maggior parte delle persone, dalla costruzione o acquisto di una casa e dalla costituzione di una propria famiglia. Nelle generazioni successive il lavoro, accanto alla soddisfazione dei bisogni primari, ha assunto il ruolo di realizzazione personale. Lo studio ha permesso a molti di noi di svolgere attività che rappresentavano un ideale di vita, oltre che un sostentamento economico. Quindi, nel procedere delle generazioni, il lavoro è stato sempre più visto non solo come un modo per tirare avanti, ma come un obiettivo di vita. In questo momento storico, complice presumibilmente la pandemia, il lavoro appare come un giogo cui ci si assoggetta solo se non ci sono alternative. Il sogno individuale non pare più quello di svolgere un mestiere economicamente e socialmente appagante, ma piuttosto quello di esprimere la propria creatività senza vincoli lavorativi e prescindendo dalle valutazioni economiche. Dopo circa 70 anni di utilizzo massivo della pubblicità e di manipolazione del desiderio degli esseri umani in un senso di induzione dei valori del capitalismo, il “big quit” che stiamo vivendo sembra proprio una reazione di rifiuto dei dettami imposti da questa stessa società. Chiaramente, solo chi ha una certa sicurezza economica – e la maggior parte dei giovani di oggi puo’ ben contare su una implicita garanzia che poggia sui beni accumulati dai loro “boomers” genitori – puo’ avere un atteggiamento un poco spocchioso verso il lavoro. Chi a stento tira a campare non si può certo permettere tanti fronzoli o pensieri inerenti le proprie aspirazioni, il contatto con la natura e la creatività della vita. Risulta interessante però notare che uno dei motori più rilevanti della società capitalistica, costituito dall’avidità di denaro e dalla bramosia di sempre maggiori averi, risulta inceppato per numeri consistenti di persone. Molti giovani, come avveniva in passato e anche per il sottoproletariato descritto da Pasolini negli anni ‘50, non sono più disposti a lavorare per sopravvivere; nemmeno gli adulti già benestanti sono più motivati a lavorare tutto il giorno per comprare la seconda casa al mare o in montagna o l’auto di grossa cilindrata. Preferiscono una vita meno dispendiosa che però permetta di avere del tempo libero da dedicare alle attività che si considerano creative e a misura d’uomo. Appare perciò evidente che l’essere umano si trovi in un momento storico favorevole per riscoprire la propria anima. Tuttavia da sempre pare che un “ritorno a se stessi” e alla propria anima creativa costituisca un passaggio psicologico cruciale nella vita di ogni individuo. Vediamo di cosa si tratta.

Nel 1934, Sigmund Freud in un’intervista raccontava: “Io sono uno scienziato per necessità, non per vocazione. La mia vera natura è d’artista. […] In ogni modo ho saputo vincere, per una via traversa, il mio destino ed ho raggiunto il mio sogno: rimanere un letterato pur facendo, in apparenza, il medico. In tutti i grandi scienziati esiste il lievito della fantasìa, ma nessuno s’è proposto, come me, di tradurre in teorie scientifiche le ispirazioni offerte dalle correnti della letteratura moderna”. In effetti, il padre della Psicoanalisi, che era un medico, con i suoi casi clinici inventò un nuovo genere letterario, una nuova forma di “raccontare” la psiche che aveva la persuasività dell’empirismo medico e fondava sulla curiosità del lettore la costruzione della sua trama, come un giallo, fatta di suspence e incoerenze. James Hillman ce lo racconta ne “Le storie che curano” (1983), ricordandoci pure che l’unico riconoscimento che Freud ebbe nella sua vita fu proprio il premio Goethe per la letteratura, a coronamento della sua vocazione. Se poi andiamo a vedere nella biografia di tanti personaggi famosi, già nel mondo della psicologia, come ad esempio già Fechner, Jung o lo stesso Hillman, ritroviamo un periodo di crisi evolutiva professionale che risulta essere centrale nella vita dell’individuo, e che ha sempre a che fare con una delusione e una rottura, una depressione o un allontanamento dal proprio ruolo o dal precedente posto di lavoro, corrispondente a una crisi creativa volta alla ridefinizione della propria identità e dell’immagine del proprio posto nel mondo. Ma cos’è una vocazione?

“Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a precorrere una certa strada. Alcuni di noi questo “qualcosa” lo ricordano come un momento preciso nell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono”. Hillman inizia così “Il codice dell’anima”, il suo bellissimo best-seller in cui espone l’idea che ciascuno sia portatore di una unicità che chiede di essere vissuta e che alla nostra nascita è già presente. Hillman utilizza la metafora del “Daimon”, narrata da Platone nel mito di Er, che racconta come a ciascuna anima venga assegnato un Daimon: un angelo o spirito-guida. Ovvero, nella nostra psiche è attiva dalla nostra nascita una funzione-guida interiore che ci accompagna verso il nostro destino, ricordandocelo per tutta la vita. Il problema è che noi, crescendo, ci dimentichiamo della nostra vocazione e del nostro destino, ovvero di ciò che siamo e in cui siamo predeterminati. Ciò avviene perché in primo luogo la nostra cultura occidentale non tende più a valorizzare l’unicità e specialità dell’individuo sin da bambino. Piuttosto, veniamo abituati a dare troppa importanza all’influenza dei genitori sulla nostra infanzia, non accorgendoci che la nostra vita non è tanto determinata da ciò che i nostri genitori hanno fatto di noi stessi, ma dal modo in cui abbiamo così imparato ad immaginarla. A tutto questo poi, il coaching e la psicologia dell’io hanno contribuito a far ammalare l’uomo di hybris, ovvero di arroganza nel voler a tutti i costi raggiungere un obiettivo, una performace, un’immagine di fitness idealizzata. È così che la gente perde la propria anima perseguendo ideali eroici di sacrificio e forza di volontà volti a ottenere ciò che, in realtà, viene indotto alla coscienza dalla società e dagli altri, e non origina dalla propria psiche come un bisogno. Come si fa dunque a capire qual è la nostra vocazione?

Hillman ci invita a guardare la nostra biografia all’indietro fino all’infanzia, tenendo presenti non tanto l’eredità dei genitori e i condizionamenti ricevuti, come normalmente facciamo per spiegare la nostra condizione attuale, ma piuttosto guardando a quelle che erano le nostre unicità, le nostre prime passioni. Ciò che ci prendeva e dava sfogo alle nostre abilità nascoste. Ma anche le nostre debolezze, le diversità e i disagi che abbiamo avuto sono importanti, perché queste erano le nostre doti, la dotazione del nostro carattere, ed esse stesse come le abilità rappresentavano la nostra vocazione. Da bambini infatti patiamo la necessità di trovare un posto in questo mondo alla nostra specifica vocazione, ma sappiamo già cosa vogliamo, e lo dimostriamo nei nostri capricci e nel nostro senso di onnipotenza. Allora le fantasìe e i deliri dei bambini non sono altro che una necessaria forma di preparazione alla vita che ci aspetta secondo il nostro specifico destino.

Dobbiamo invece ristrutturare la nostra percezione del bambino che eravamo, dell’adulto che siamo e dei sintomi del nostro disagio, che non sono qualcosa di negativo, ma in realtà sono una benedizione. I nostri sintomi, le nostre malattie, la nostra insofferenza sono essi stessi la manifestazione dell’esistenza del Daimon e della propria vocazione: essi rappresentano la direzione che la nostra anima vuole seguire verso il proprio destino.

Dobbiamo recuperare quindi la bellezza, cercarla in qualsiasi cosa facciamo come gesto di redenzione: la bellezza della nostra biografia è essa stessa la nostra cura. Capiremo qual è la nostra vocazione e quale sia il nostro destino solo guardando alla nostra vita con la sensibilità immaginativa con la quale leggeremmo un romanzo, ricostruendone i significati attraverso i passaggi e i collegamenti per noi più belli e poetici. Sono le storie che curano la psiche, e nel ri-narrarle noi troviamo la giusta direzione.

Dobbiamo rieducare la nostra immaginazione a re-immaginare la nostra vita. Ad esempio quando parliamo di ciò che desideriamo fare, le metafore che noi siamo abituati a usare vedono esclusivamente la continua crescita dell’individuo, la parte ascensionale dell’organismo. siamo diventati capaci solamente di desiderare di essere migliori nel senso di più ricchi, più grandi, di avere più riconoscimenti, più successo, e pensiamo che da tutto questo venga la soddisfazione di aver vissuto la nostra vita. Niente di più esatto per sbagliare vita ed essere perennemente infelici e insoddisfatti. Tutto ciò è voluto dalla società moderna, supportata dall’illusoria psicologia dell’Io, come il coaching e le pratiche comportamentali, che tendono a rinforzare la volontà, la determinazione a perseguire un obiettivo e ad aumentare la propria motivazione, spingendo l’individuo a desiderare la vita di un altro migliore, a correre e crescere, a volere sempre di più. Fornendo una qualche ricetta prestabilita, come i “dieci passi” per la felicità o i “dodici punti” per avere successo. Come se la felicità fosse uguale per tutti, come se non fossimo unici ma fossimo tutti uguali.

Le parole di Freud possono esserci utili per capire come il nostro destino si realizza, realizzando noi stessi nel mondo. Non è necessario cambiare lavoro, soprattutto se questo almeno in parte ci nutre e ci soddisfa. Spesso invece è necessario attivare quelle parti della propria anima, della personalità, che non riconosciamo. Nella mia pratica psicanalitica, ad esempio ho visto molti pazienti quasi magicamente “attivarsi” nella propria confuzione e rimettere i propri sintomi ansiosi o depressivi semplicemente riconoscendo la parte creativa in se stessi. Jung e Hillman ci hanno insegnato che è la stessa psiche che orienta nel mondo e manda immagini che simbolicamente significano cosa siamo chiamati a fare nel mondo, addirittura come farlo. Attraverso la narrazione della propria biografia e delle vicissitudini quotidiane, insieme alla valutazione del significato simbolico delle immagini contenute nei propri sogni, nei sintomi che manifestano il disagio psichico nel corpo, e più generalmente nelle parole e nel linguaggio del discorso del paziente, lo psicologo analitico archetipico puo’ essere in grado di ritornare al paziente i suoi contenuti rimossi e in ciò di sciogliere i suoi blocchi emotivi. Man mano il paziente riconosce se stesso nel significato di queste immagini, e si conduce nella vita di tutti i giorni verso il cambiamento a cui la propria psiche lo chiama nel suo processo di individuazione nel mondo.

Questo processo viene sempre percepito come una rottura, una perdita, un lutto, una morte simbolica e una nigredo alchemica. Questo fenomeno è oggi di massa, e la sofferenza del lavoro nella pandemia e le sucessive “grandi dimissioni” ne sono l’equivalente osservabile esteriormente. Nel cambiamento, la nigredo è però sempre funzionale alla rinascita e rivoluzione a cui esso è volto, orientato dalla nostra psiche inconscia. Essa si serve proprio del relitto di ciò che è rimasto, cioè degli elementi primari disgregati che provengono dalle esperienze fin qui avute nelle relazioni professionali e sociali, e nel proprio lavoro come dell’impatto e delle conseguenze che esso ha avuto in ogni campo della propria vita, per condurre l’individuo che lo abbandona o lo cambia verso condizioni che rispecchiano più fedelmente una realtà interiore, aldilà di quella esteriore finora percepita. Come dice Jung, conoscere se stessi è il prerequisito fondamentale per potersi individuare nel mondo soprattutto professionalmente. Per fare ciò, è necessario fermarsi a riflettere sul significato delle proprie immagini psichiche, dei propri pensieri e dei propri sintomi, degli accadimenti e dei fatti personali, delle sincronicità che determinano la nostra vita.

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