Qual è la nostra vocazione, il nostro destino?

Arriva per tutti, prima o poi, il giorno in cui siamo costretti a farci questa domanda. Spesso giunge in un momento di crisi o in una empasse, bloccati in una vita che non sentiamo più la nostra, costretti a un destino che sembra inesorabilmente diverso da quello che avevamo immaginato. Eppure, secondo James Hillman – il più grande psicoanalista recente e critico della cultura – ciascuno di noi viene al mondo con una precisa chiamata, una vocazione: essa si presenta in un preciso carattere e ci chiama al nostro destino. Il senso della nostra vocazione è la ragione per cui siamo vivi.

Ma cos’è una vocazione? “Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a precorrere una certa strada. Alcuni di noi questo “qualcosa” lo ricordano come un momento preciso nell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono”. Hillman inizia così “Il codice dell’anima”, il suo bellissimo best-seller in cui espone l’idea che ciascuno sia portatore di una unicità che chiede di essere vissuta e che alla nostra nascita è già presente. Hillman utilizza la metafora del “Daimon”, narrata da Platone nel mito di Er, che racconta come a ciascuna anima venga assegnato un Daimon: un angelo o spirito-guida. Ovvero, nella nostra psiche è attiva dalla nostra nascita una funzione-guida interiore che ci accompagna verso il nostro destino, ricordandocelo per tutta la vita.

Il problema è che noi, crescendo, ci dimentichiamo della nostra vocazione e del nostro destino. Ciò avviene perché in primo luogo la nostra cultura occidentale non tende più a valorizzare l’unicità e specialità dell’individuo sin da bambino. Piuttosto, veniamo abituati a dare troppa importanza all’influenza dei genitori sulla nostra infanzia, non accorgendoci che la nostra vita non è tanto determinata da ciò che i nostri genitori hanno fatto di noi stessi, ma dal modo in cui abbiamo così imparato ad immaginarla.

Come si fa dunque a capire qual è la nostra vocazione? Hillman ci invita a guardare la nostra biografia all’indietro fino all’infanzia, tenendo presenti non tanto l’eredità dei genitori e i condizionamenti ricevuti, come normalmente facciamo per spiegare la nostra condizione attuale, ma piuttosto guardando a quelle che erano le nostre unicità, le nostre prime passioni. Ciò che ci prendeva e dava sfogo alle nostre abilità nascoste. Ma anche le nostre debolezze, le diversità e i disagi che abbiamo avuto sono importanti, perché queste erano le nostre doti, la dotazione del nostro carattere, ed esse stesse come le abilità rappresentavano la nostra vocazione. Da bambini infatti patiamo la necessità di trovare un posto in questo mondo alla nostra specifica vocazione, ma sappiamo già cosa vogliamo, e lo dimostriamo nei nostri capricci e nel nostro senso di onnipotenza. Allora le fantasìe e i deliri dei bambini non sono altro che una necessaria forma di preparazione alla vita che ci aspetta secondo il nostro specifico destino.

Il bambino non vuole essere trattato come un bambino perché si sente intrinsecamente più avanti rispetto al suo esile corpo e alle sue fragili competenze. Tuttavia finisce per rendersi conto di non essere subito all’altezza della sua vocazione, e ben presto vi rinuncia, perché le sue doti vengono viste non come virtù ma come debolezze, e le sue diversità vengono indotte ad essere represse. Così ci dimentichiamo che eravamo speciali quando cantavamo a squarciagola, quando passavamo le nostre notti facendo i nostri disegni e costruendo i nostri progetti, quando preferivamo leggere certi libri o fare certi esercizi piuttosto che fare ciò che facevano gli altri. Imparando a vivere senza dar nell’occhio, abbiamo imparato a non essere noi stessi.

Hillman analizza le biografie di moltissimi personaggi famosi, dimostrando che le persone eccezionali hanno già tutte manifestato nella loro infanzia la propria vocazione, e l’hanno fatto nel modo più lampante. Forse è per questo che da sempre le stelle esercitano un fascino sugli altri: esse sono modelli di come, nel bene e nel male, ciascuno possa realizzare la propria vocazione. Attenzione però, non dobbiamo anelare ad essere come loro, perché non esiste una ricetta o un cammino comune: è il nostro “fuori dal comune” a renderci unici! Cercando di assomigliare a qualcun altro, e seguendo i suoi passi, noi non facciamo altro che allontanarci dal nostro unico cammino e confinarci nel limbo dell’insoddisfazione e dell’incompiutezza.

Dobbiamo invece ristrutturare la nostra percezione del bambino che eravamo, dell’adulto che siamo e dei sintomi del nostro disagio, che non sono qualcosa di negativo, ma in realtà sono una benedizione. I nostri sintomi, le nostre malattie, la nostra insofferenza sono essi stessi la manifestazione dell’esistenza del Daimon e della propria vocazione: essi rappresentano la direzione che la nostra anima vuole seguire verso il proprio destino. Dobbiamo recuperare quindi la bellezza, cercarla in qualsiasi cosa facciamo come gesto di redenzione: la bellezza della nostra biografia è essa stessa la nostra cura. Capiremo qual è la nostra vocazione e quale sia il nostro destino solo guardando alla nostra vita con la sensibilità immaginativa con la quale leggeremmo un romanzo, ricostruendone i significati attraverso i passaggi e i collegamenti per noi più belli e poetici. Sono le storie che curano la psiche, e nel ri-narrarle noi troviamo la giusta direzione.

Dobbiamo rieducare la nostra immaginazione a re-immaginare la nostra vita. Ad esempio quando parliamo di ciò che desideriamo fare, le metafore che noi siamo abituati a usare vedono esclusivamente la continua crescita dell’individuo, la parte ascensionale dell’organismo. siamo diventati capaci solamente di desiderare di essere migliori nel senso di più ricchi, più grandi, di avere più riconoscimenti, più successo, e pensiamo che da tutto questo venga la soddisfazione di aver vissuto la nostra vita. Niente di più esatto per sbagliare vita ed essere perennemente infelici e insoddisfatti. Tutto ciò è voluto dalla società moderna, supportata dall’illusoria psicologia dell’Io, come il coaching e le pratiche comportamentali, che tendono a rinforzare la volontà, la determinazione a perseguire un obiettivo e ad aumentare la propria motivazione, spingendo l’individuo a desiderare la vita di un altro migliore, a correre e crescere, a volere sempre di più. Fornendo una qualche ricetta prestabilita, come i “dieci passi” per la felicità o i “dodici punti” per avere successo. Come se la felicità fosse uguale per tutti, come se non fossimo unici ma fossimo tutti uguali.

Piuttosto, dice Hillman, crescere è “discendere”, ovvero scendere verso il basso, verso il nostro centro e le radici, verso l’interiore, cadere per rialzarsi e imparare a stare al suolo e con i piedi per terra, conoscendo il proprio destino. E`chiaro che finché la cultura non riconoscerà che nella vita crescere è discendere, tutti i suoi membri si troveranno ad annaspare alla cieca per dare un senso alle disperazioni di cui abbiamo naturalmente bisogno per penetrare il nostro fondo e lo spessore della vita, e farlo nostro. Così come l’albero puo’ elevarsi in alto tanto più cresce in profondità con le sue radici, e attraverso esse puo’ trarre nutrimento fortificando il tronco e dando i suoi frutti, così noi possiamo crescere e formare il nostro carattere per andare verso il nostro destino, solamente se penetriamo all’interno di ciò che viviamo, nel suo lato oscuro, per coglierne il vero significato. Così come una ghianda nasce per diventare una quercia e non un altro albero, tutti i divi prima o poi cadono in basso, ed è proprio questo che li fa rinascere e realizzare il destino al quale essi erano stati chiamati.

“Queste cadute sono tentativi abortiti di discendere, cioè di crescere”, dice Hillman. Ad esempio, la solitudine che spesso noi viviamo è sintomatica di un’oppressione: siamo oppressi da un modo di vivere sbagliato. Soprattutto nelle grandi città e nella società moderna, le consociazioni anonime hanno sotituito quelle individuali tradizionali: ovvero, mentre un tempo nel piccolo centro abitato tutti si conoscevano di persona e non ci si sentiva soli, oggi invece capita che non sappiamo nulla nemmeno dei nostri vicini di piano o dei colleghi di lavoro. Non scambiamo più nessun significato quasi con nessuno. La solitudine che proviamo in questa società ci dice che essa è cambiata e che dobbiamo avere il coraggio di cogliere la nostra vocazione e “farla” nel mondo, invece di fissarci con una persona o un luogo particolare. Se crescere è discendere, allora dobbiamo anzitutto assecondare la curva discendente che accompagna il nostro invecchiamento, invece di desiderare una vita sempre giovani.

Questo non è certamente il vostro destino. Come non lo è affatto il rifiutare la propria famiglia, il vergognarsi dei propri genitori: questo è un altro indizio che si sta facendo una vita sbagliata, una vita di ripiego, di compensazione di ciò che viene al contrario considerata una propria debolezza, per dirla secondo la famosa ma altresì illusoria teoria di Adler. La famiglia è una debolezza qualora la si consideri come tale, e si imposti una vita nel cercare di compensarla, o nel rifiutarla: mai scelta puo’ essere più sbagliata. Perché si puo’ comprendere il proprio destino e il senso della propria esistenza dopo aver accettato di essere un membro della propria famiglia e di far parte dell’albero genealogico. Atrimenti ci troveremo sempre su quello di un altro, abortendo il nostro.

Accettare le proprie origini significa destituire i nostri genitori dell’importanza esclusiva che gli abbiamo dato nel doverci fornire per forza un certo tipo di amore: più restiamo aggrappati a questa idea totalitaria, che Hillman chiama “superstizione parentale”, meno riusciamo a vedere le cure paterne e materne offerte quotidianamente dal mondo nelle piccole cose che ci mette davanti. È il mondo intero, non solo mamma e papà, a offrirci la possibilità di farci un nido e di proteggerci, di soddisfare la nostra fame e la sete, di avere avventure e di giocare. Il mondo, dice Hillman, “non è fatto solo di oggetti e di cose: è pieno di occasioni utili, ludiche, avventurose. Il passero non vede un ramo, vede un’occasione per appollaiarsi; il gatto non vede l’oggetto da noi definito una scatola vuota, bensì un buon nascondiglio per vedere non visto; l’orso non fiuta il favo, ma l’occasione per mangiarsi una leccornia. Il mondo è tutto un ronzare, uno sbocciare di informazioni, accessibili a tutti, mai negate”.

Quante volte rinunciamo a fare un viaggio, ad andare a un concerto, a conoscere una certa persona, a cambiare il percorso che facciamo ogni giorno, per la sola paura di stare a perder tempo inutilmente. In realtà il tempo lo perdiamo aspettando che arrivi quel giorno preciso, quella certa persona, quel colpo di fortuna, aspettando una vita intera. I bambini ci insegnano che il Daimon non vuole aspettare: sono irrequieti perché vogliono agire la loro vocazione, perché immaginando già intravedono il loro destino. Possiamo anche noi sentire la nostra passione, nell’Eros che mettiamo in ciò che ci piace fare, nel ricercare la bellezza, nel “fare anima” nel mondo. È il mondo la nostra casa. Tutti i nostri antenati sono la nostra famiglia. Siamo ancora in grado di voler vivere in quel nostro ambiente naturale, di dar voce alla nostra vocazione, di compiere il nostro destino.

E se il nostro destino fosse proprio quello di vivere una vita mediocre, nonostante il dono che abbiamo? Perché molto spesso non riusciamo a emergere nonostante il nostro talento?

Premesso che crescere non è emergere ma “discendere”, ovvero ritrovare in noi stessi il filo conduttore della nostra vita, Hillman spiega che nessuna anima è mediocre, ma la mediocrità puo’ sì essere una forma di vocazione. Non si deve infatti confondere un dono particolare, un nostro talento, con la vocazione. L’eccezionalità si manifesta solo quando il talento è al servizio dell’immagine totale del nostro destino e ha il supporto di un carattere adatto a perseguire quell’immagine. E il carattere è individuale: non è quello che faccio, ma “il modo come” lo faccio. Noi siamo “il modo come” facciamo le cose della nostra vita (e non le cose che facciamo); questo modo ha effetti sulla nostra anima e sul nostro destino, e definisce il nostro carattere. Il nostro destino è un progetto irrealizzato che siamo chiamati a svolgere in un modo unico che è solo il nostro. Non è importante quindi cosa facciamo nella vita per realizzarci, perché ci realizzeremo soltanto se lo faremo nel nostro modo speciale, come solo noi sappiamo fare.

Il nostro Daimon è sempre lì, ci segue ovunque andiamo, fa parte della nostra psiche e in qualche modo ci ricorderà sempre chi siamo e perché siamo venuti al mondo.

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