L’archetipo del Natale, oggi

Il potere delle immagini archetipiche natalizie resiste nel tempo nonostante il cristianesimo come pratica, fede e contatto con Dio sia sempre più scomparso dalla nostra vita quotidiana. Qual è quindi oggi il senso del festeggiare la natività di Cristo? Perché a Natale addobbiamo un albero con delle luci e delle palle? Qual è il significato del Natale che per noi è rimasto?

Anche se oggi quasi non ce ne accorgiamo, la nostra giornata è comunque ordinata e gestita da usanze e tradizioni che fanno parte dell’inconscio collettivo, e che provengono da migliaia di anni della storia umana. Esse sono conservate e rinnovate nella loro essenza sottoforma di rituali e festività, che formano credenze, abitudini e pratiche che l’uomo ripete per conservare e protrarre il proprio senso di coerenza e identità, nonché di appartenenza a una comunità vivente. Dal portare il pane a tavola fino al pronunciare certe parole come saluti e auguri, la nostra essenza di esseri umani da sempre poggia su immaginari archetipici che, inseriti in storie o narrazioni, sono anche miti e mitologemi ovvero rappresentazioni fantastiche delle forze e delle energìe della natura e della psiche. Come affermava lo storico Károly Kerény e come Jung descrive ne “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, i miti sono reviviscenze legate all’esistenza di elementi strutturali mitopoietici della psiche inconscia. In altre parole, la nostra psiche ha la facoltà di creare storie mitiche contenenti taluni immaginari archetipici, come quelli del Natale, attraverso i quali la nostra esistenza acquisisce significato. Ciò avviene attraverso l’uomo e la sua coscienza ma anche ben aldilà di essa, compiendo la psiche stessa la sua (non nostra) opera di individuazione nel mondo. Ciò avviene anche in modo del tutto indipendente dalla cultura e dalle tradizioni attuali in cui l’uomo si ritrova a vivere, perché dentro la nostra psiche noi portiamo le culture e tradizioni di tutta la storia dell’uomo. Esse sono inscritte come archetipi o forme energetiche istintuali che, al costellarsi, si traducono in precisi schemi di comportamento. La psicologia archetipica si occupa principalmente di come gli immaginari archetipici si attivino come miti e autonomamente nella psiche, guidando e orientando l’individuo attraverso tutta la sua esistenza, e radicalmente influendo sulla sua vita all’interno di un gruppo e nella storia dell’umanità, con tutta una serie di significati psicologici.

In questo senso, il Natale e la Natività, Babbo Natale e la Befana, il presepe e l’albero di Natale, ogni singola immagine natalizia sono archetipi e miti. Jung considera i miti come l’espressione di direttrici naturali della vita nelle società. Queste direttrici sono però in pericolo, e con esse la nostra stessa integrità come esseri umani, quando se ne perde o dimentica il frutto spontaneo della loro essenza psicologica, ovvero il significato: in tal modo se ne perde ciò che esprime il senso e il fine della loro esistenza, nelle condizioni infinitamente variabili dei luoghi e dei tempi storici, e ciò arreca un grave danno sia al benessere psicologico individuale che mettendo in pericolo l’intera umanità. È di fatto proprio la conoscenza del significato dei nostri miti a garantire il senso di ordine e fiducia in se stessi e nell’altro: senza conoscere e riconoscere attraverso i riti e le usanze il significato di ciò che siamo, di ciò che abbiamo e di ciò che facciamo, siamo inevitabilmente destinati a lasciare che tutto questo si distrugga. La grave crisi di valori che oggi viviamo, nel concretismo si riflette in continue crisi economiche e geopolitiche, rispecchiando il crollo e la disgregazione dei principi umani che sono appunto conservati e tramandati attraverso immaginari archetipici all’interno di miti come il Natale, che costituiscono la loro rappresentazione e conservazione: vediamo come questo è possibile.

Da noi in occidente, nei secoli passati la Chiesa cattolica si è imposta a garante della conservazione di leggi morali e codici di comportamento che costituivano il prodotto dei significati archetipici cristiani che si sedimentarono nella nostra cultura a cavallo del politeismo romano in un’epoca di massima espansione e crisi dell’impero, riportando quella coerenza e integrità che prima erano dati dall’etica del buon vivere, del “conosci te stesso” come conoscenza del proprio posto nel mondo, e della costante ricerca dell’armonia con le divinità come forze della natura. Negli anni dell’impero, l’inflazione della coscienza e del potere egoico dell’individuo avevano sopraffatto il rispetto per le divinità e le forze della natura: l’uomo si era così affiancato e quasi sostituìto al potere divino. Sotto il cattolicesimo, il potere canonico del Papa e della Chiesa si impose del tutto a rappresentante della divinità, imponendo quel “dogma” che, come Jung dice, “sostituisce l’inconscio collettivo e lo esprime su vasta scala. Perciò, in linea di principio, il modo di vita cattolico non conosce una problematica psicologica in questo senso. La vita dell’inconscio collettivo sbocca quasi interamente nelle rappresentazioni archetipiche del dogma e fluisce come una corrente bene imbrigliata nel simbolismo del Credo e del rituale: la sua vita si manifesta nell’interiorità dell’anima cattolica” (Cfr. C.G. Jung, Opere 9* “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, Boringhieri, 1997, pag. 11 e seguenti). Ad esempio, l’usanza del Natale diviene perciò un rito religioso preciso e collettivo, e la gente diviene ben consapevole del suo significato condiviso perché deciso proprio dall’uomo in forma stereotipata, anche perché c’era tutta una comunità a suo supporto e promulgazione. Prima del cattolicesimo, invece, rituali e miti come oggi noi li conosciamo non appartenevano all’uomo e alla sfera della coscienza, ma rimanevano relegati al divino e alle sue manifestazioni all’uomo che viveva in partecipazione mistica con essa, per cui in un certo senso era la divinità stessa a “decidere” il rito e il suo senso, che così rimaneva parzialmente inconscio e inspiegato. “L’inconscio collettivo, quale oggi lo intendiamo, non fu mai psicologico poiché prima della Chiesa cristiana esistevano i misteri antichi, i quali a loro volta si perdevano nelle nebulosità del Neolitico. Mai l’umanità ha mancato di immagini potenti, apportatrici di magica protezione contro la perturbante realtà delle profondità psichiche; le figure dell’inconscio furono sempre espresse mediante immagini protettrici e risanatrici e in tal modo respinte nello spazio cosmico, ultrapsichico”. L’iconoclastìa della Riforma, sgretolando una dietro l’altra le immagini sacre ma considerate pagane e pericolose proprio perché non se ne conosceva il significato fino in fondo, e di conseguenza non se ne poteva controllare il potenziale evocativo nell’individuo, finì ad assimilarle a un unico dogmatico Credo. Ma il significato simbolico delle immagini sacre e dei riti era già perso nella notte dei tempi: ovvero apparteneva all’inconscio collettivo, e da lì governava e ordinava in forma autonoma l’individuo, le società e il mondo stesso. Oggi che non abbiamo più il Credo e il dogma della Chiesa a imposizione morale sulle nostre usanze, e che perciò si è perso il significato cristiano del Natale, riemerge come immaginario archetipico che rimane attivo nel nostro inconscio. Di fatto, continuiamo a conservare le tradizioni natalizie adattandole al contesto moderno in cui viviamo, come al capitalismo, all’individualismo e al laicismo imperante, che nella politica come nella scienza ha trovato un nuovo dogma e un nuovo Credo: quello del “non esiste alcun dio aldilà della realtà tangibile e della coscienza”. Ragion per cui nascono le psicopatologie e sempre più dilagano al dilagare del dogma della Scienza e del suo Credo, e come fanno i sintomi esse vengono a ricordarci dell’esistenza della nostra divinità come “anima” e forze della psiche. Ma se alla sofferenza dell’anima è da ricondurre sia il malessere psicologico che la crisi di identità che oggi viviamo, né la scienza né alcun nuovo Credo potranno mai estirpare dalla psiche le sue immagini archetipiche. Per cui se ne continuerà a dare sempre una forma inconscia nel concreto, cioè vivendola come “sintomo” e come agìto, come la corsa alle cene natalizie, la frenesìa dei regali e dell’avere un albero di Natale sempre più grande e più bello, l’ossessione per le decorazioni o per il menu del pranzo di Natale, cioè agendo in modo automatico e non consapevoli del significato dei simboli e del potere che su di noi essi stanno necessariamente agendo.

Disse Jung che al loro costellarsi dall’inconscio nella coscienza collettiva, noi assumiamo che queste immagini divine siano meramente esistite: Cristo, la Trinità, l’Albero di Natale, l’Uovo di Pasqua, e così via, crediamo che esse debbano per forza avere avuto un ruolo fondamentale nello scrivere la storia. “Le immagini archetipiche sono a priori così cariche di significato che non ci si chiede mai che cosa veramente possano voler dire. È per questo che di quando in quando muoiono gli dèi: perché a un tratto si scopre che non significano più niente, che sono dèi otiosi di legno e di pietra creati dalla mano dell’uomo. In realtà, l’uomo ha scoperto una cosa sola: che alle proprie immagini non ha riflettuto ancora affatto. E quando comincia a riflettervi, lo fa con l’aiuto di ciò che egli chiama “ragione”, ma che in realtà non è altro che la somma delle sue prevenzioni e delle sue miopie”. Di fatto, la Natività non è ciò che noi presumiamo di sapere nelle nostre eventuali spiegazioni: ad esempio, essa non riguarda ciò che resta di una sorta di festa di compleanno di Gesù Cristo, e come un rito cattolico che ad oggi non avrebbe più senso riprodurre. Al ricorrerlo, tendiamo a dare facili spiegazioni perché confondiamo facilmente il significato del segno da quello ben più ampio e profondo del simbolo. Di conseguenza, succede che a Natale anche dopo aver fatto tutto perfettamente, o dopo non aver partecipato affatto al rito, ci sentiamo un po’ più vuoti e tristi invece che soddisfatti, un po’ come a una festa a cui si va senza sentirne il bisogno. Il significato del sacro nel rito non viene acceduto, e rimaniamo a una forma di conoscenza superficiale e materiale, piuttosto figlio del capitalismo e del nichilismo dilagante, che non soddisfa il bisogno archetipico della psiche. D’altra parte, l’uomo soltanto razionale rifiuta oggi tutte le usanze e disconosce l’importanza delle tradizioni, non avendo più quel senso di un sé profondo che rende l’uomo in grado di vivere la propria vita nella dimensione benefica e rigenerante del sacro e dello spirituale. Senza un contatto continuo con la sua dimensione profonda, l’uomo ne soffre inevitabilmente il bisogno, e la sua anima, patologizzando, tenderà a fargli distruggere tutto. Con o senza una religione, non dovremmo mai dimenticarci che “tutto è sacro”, come diceva Pasolini; e non bisogna necessariamente ricadere nel dogmatismo né appartenere a un Credo preciso per vivere la dimensione poetica e divina del proprio essere umani e psicologici. È infatti in questa sua dimensione profonda che l’uomo ha bisogno, per sua natura, di credere. Sarà nel rivolgerci ad essa, infatti, che noi rifletteremo abbastanza sul significato degli archetipi e dei simboli così come dei nostri eventi personali, e potremo così accedere a quella dimensione dello spirito a cui i simboli appartengono, e da dove le immagini archetipiche tendono autonomamente a condurci nella vita con il loro potere immaginativo.

Così, ci ricorda Jung, la Natività di Cristo si collega simbolicamente al simbolo del Pesce, fonte della vita e Nûn o Padre dell’Ombra, dell’uomo carnale che discende dal mondo oscuro del Creatore, che trova analogia islamica nel mito di al-Khidr e nell’alchimia si ritrova come philius philosophorum e stesso Lapis. “Anche al-Khidr rappresenta probabilmente il Sé. Le sue proprietà lo qualificano come tale: egli dev’essere nato in una caverna, dunque nell’oscurità; è il “longevo” che, come Elia, si rinnova continuamente. Come Osiride, viene, alla fine del tempo, smembrato dall’Anticristo; ma può resuscitare. È analogo al secondo Adamo, con cui è anche identificato il pesce resuscitato”; “Dove è scomparso il pesce, là è il luogo di nascita di al-Khidr. L’essere immortale deriva da qualcosa d’insignificante, di dimenticato, anzi da ciò che pe del tutto improbabile. È questo un motivo ricorrente della nascita degli eroi“. Altrove Jung dirà pure che, seguendo il mito cristiano della posizione della Cometa, si può ricondurre la nascita di Gesù alla costellazione dei Pesci. È comunque seguendo proprio le analogie e le sincronicità che colleghiamo e rinnoviamo il significato della Natività alla nostra nascita, nonché alla nascita del nostro Eroe come forza ed energia nella psiche, tramandandolo come mito attraverso la nostra vita. Ogni volta che festeggiamo il Natale, che ci piaccia o meno, noi stiamo rinnovando una nostra seconda nascita, quella psichica e archetipica del divino che è nell’umano. Per questo una qualche Natività viene festeggiata in ogni cultura e tradizione. Oggi c’è il mito del Compleanno che si è affiancato a quello del Natale, per cui alcuni cercano di rappresentare il proprio eroismo mettendo luci e vistosi festoni nella propria casa e richiamando tutti i conoscenti e anche persone sconosciute per partecipare, senza rendersene conto, a quello che per la psiche è un rinnovamento del proprio essere semidivino. Ma ecco che poi subentra lo spleen, come quello del Natale stesso, in chi partecipa solo al segno e non accede al significato profondo del simbolo.

L’immagine archetipica tuttavia si costella e da sola agisce, come quella dell’Albero di Natale, nonostante le nostre credenze. Quello dell’ Albero è un archetipo la cui origine si perde nella notte dei tempi, come quello della Grande Madre, e avendo al pari di essa il significato di “origine”. Secondo Jung, l’albero di Natale “rappresenta l’inizio e la fonte della vita, vale a dire quella forza vitale magica così familiare al primitivo il cui rinnovamento annuale veniva festeggiato con l’omaggio reso a un figlio divino, a un puer aeternus” (Cfr. C.G. Jung, Opere 5 “Simboli della trasformazione”, Boringhieri, 1992, pag. 256-57). Legata alla tradizione dell’albero c’è anche quella del taglio del ramo di vischio, che nelle favole e tradizioni germaniche è un rimedio contro la sterilità, e per Jung il Vischio rappresenta lo stesso “bambino dell’albero” o “il figlio della madre”, fiorente nella giovinezza e fatalmente votato a una prematura morte. “Nell’esperienza interiore immediata la madre corrisponde all’inconscio (collettivo), il figlio alla coscienza che vagheggia d’esser libera, ma deve sempre ricadere in potere del sonno e dell’incoscienza. Ora il vischio corrisponde al fratello-ombra così magistralmente descritto da Hoffmann nei suoi Elisiri del diavolo, che lo psicoterapeuta incontra regolarmente come personificazione dell’inconscio personale”. Ogni volta che noi scegliamo di appendere un ramo di vischio sopra la porta, senza saperlo rinnoviamo il simbolo della Natività e in esso il nostro incontro con l’Ombra. Altrove Jung dirà che “l’albero decorato e illuminato, si ritrova anche indipendentemente dalla natività di Cristo e anzi in contesti non cristiani. Per esempio nell’alchimia, quell’inesauribile riserva dei simboli dell’antichità. […] Il significato dei globi lucenti che appendiamo all’albero di Natale: non sono altro che i corpi celesti, il sole, la luna, le stelle. L’albero di Natale è l’albero cosmico. Ma, come mostra chiaramente il simbolismo alchemico, è anche un simbolo della trasformazione, un simbolo del processo di autorealizzazione. Secondo talune fonti alchemiche, l’adepto si arrampica sull’albero: un motivo sciamanico antichissimo. Lo sciamano, in stato estatico, sale sull’albero magico per raggiungere il mondo superiore, dove troverà il suo vero essere. Arrampicandosi sull’albero magico, che è al tempo stesso l’albero della conoscenza, egli si impossessa della propria personalità spirituale. Allo sguardo dello psicologo, il simbolismo sciamanico e alchemico è la rappresentazione in forma proiettiva del processo di individuazione. Come questo poggi su base archetipica è dimostrato dal fatto che i pazienti del tutto privi di nozioni di mitologia e di folklore producono spontaneamente immagini incredibilmente simili al simbolismo dell’albero storicamente attestato. L’esperienza mi ha insegnato che gli autori di quelle rappresentazioni cercavano in tal modo di esprimere un processo di evoluzione interiore indipendente dalla loro volontà cosciente.”

Quando avevo diciotto anni, in una delle mie visioni notturne proprio alcuni giorni prima del Natale, vidi uscire dall’ombra di un albero la figura di un uomo, che nella mia immaginazione era sia un Generale nativo americano, oscuro e dal capo piumato, sia un mio avo, nonostante a mia conoscenza io non ne avevo alcuna discendenza. L’avo-ombra dell’albero mi disse che io ero il Figlio dell’albero, e come figlio di quell’ombra io avrei avuto in esso un destino. Mi trovavo al Circo Massimo a Roma, e questa fu una delle esperienze immaginative più importanti e trasformative della mia esistenza. Da quel giorno ho sempre avuto un rapporto particolare con gli alberi, sia con quelli di Natale che con qualsiasi altro albero e la sua ombra. Non solo iniziai a osservarne più a lungo l’immagine e la forma, talvolta a toccarli: arrivai ad essere in grado di ascoltare il significato psicologico che essi di volta in volta avevano da suggerirmi. In un sogno recente, mentre annaffiavo le piante del mio giardino, dietro di me il leccio piantato da mio nonno davanti la nostra casa prendeva le sue sembianze, toccandomi una spalla come con una mano, e suggerendomi all’orecchio di “non dare troppa acqua al prato e alle piante perché sono cresciute abbastanza”. Nel decorare il mio albero di Natale, quest’anno ho scelto dei globi rossi e giallo oro, simboli della rubedo e realizzazione dei miei archetipi e pianeti interiori. Tra di essi, ho messo anche due farfalle degli stessi colori: simboli di Psiche, nonché dell’anima realizzata.

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