Cari pazienti, non meravigliatevi se al colloquio con uno psicologo o uno psichiatra, oggi, vi siete sentiti alieni come cavie da laboratorio, oggetto di studio e statistica e definizione scientifica, fascicolo da catalogazione e assimilazione a migliaia di altri disturbati. Viviamo in un’epoca, quella moderna, in cui la psicologia non si occupa della psiche, cioè dell’anima, ma della mente, cioè del cervello e dei fatti della coscienza. Fuffa del concretismo, nei confronti della divinità e maestosità della Psiche. Per cui non meravigliatevi e non prendetevela nemmeno col vostro terapeuta se, mentre parlate, vi capitasse di sentirvi incompresi, vi sentiate di dover ripetere sempre le stesse cose, o di stare pagando per nulla. O peggio ancora di non sentirvi liberi di esprimervi come vorreste per il timore di essere considerati pazzi. L’attenzione al linguaggio è andata perduta negli stessi psicologi, che studiano sistemi di diagnosi e classificazione di psicopatologie senza nemmeno rendersi conto di essere essi stessi i primi pazienti, i primi a nascondere quei sintomi a se stessi nel loro eloquio sobrio e depurato da ogni immagine deviata, nella loro idea di ciò che è giusto e sbagliato, nel loro dividere il mondo tra una media e chi non vi rientra. Eppure, come nel teatro, era il linguaggio stesso, le parole usate, scelte con cura e in tutta la loro ricchezza e potenza, pronunciate come sacre, come preghiere o invocazioni divine, ad essere la cura stessa per la psiche.
Ne “ Le storie che curano”, James Hillman, successore di Carl Gustav Jung e fondatore della Psicologia Archetipica, riprende il lavoro di tre grandi “padri” della psicanalisi, Freud, Jung e Adler, riportando al centro della terapia la psiche stessa e le sue immagini, non il metodo né la tecnica, figli dell’immaginario positivista – esso stesso patologizzante – di una psiche equiparata al comportamento, alla performance cognitiva e alle sue quantificazioni e valutazioni diagnostiche. Voi non siete la vostra diagnosi, ma le parole che avete per descrivere e rappresentare ciò che siete e vi accade. Le parole sono immagini psichiche, e la psiche è fatta di immagini, che sono il modo in cui ci rappresentiamo l’energia e le forze naturali che ci agiscono automaticamente, o che, qualora ne diveniamo consapevoli, possiamo provare ad agire. Allora, sono 𝗹𝗲 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗲 che noi raccontiamo su noi stessi e su ciò che viviamo a poter tradurre quelle energie psichiche, che in noi emergono come istinti, pulsioni, emozioni, in immagini mentali per poter così essere comprese e lasciate agire nel luogo e nel tempo adatto alla loro estinzione e soddisfazione. In sostanza, per poter indurre un cambiamento psicologico, è necessario tradurre in linguaggio, parole, 𝘭𝘰𝘨𝘰𝘴, le immagini della nostra psiche che si presentano alla coscienza.
Parlare e raccontarsi, ricostruire la propria biografia, fare del proprio vissuto intrapsichico una narrazione cioè una rappresentazione in immagini comprensibili per il loro significato e condivisibili in una relazione, è già di per sé terapeutico, perché questo è l’unico modo per 𝘁𝗿𝗮𝘀𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝗿𝗲 quelle immagini, e quindi quelle energie psichiche, rivedendole alla sorgente e modulandone l’attività riattribuendogli il giusto significato. “Giusto” perché è quello di cui la nostra psiche ha bisogno al momento, ovvero il significato ontologico dell’immagine simbolica “così com’è”, e non perché noi crediamo che sia quello di cui abbiamo bisogno, né perché me lo ha detto qualcun altro o perché sta scritto in un manuale diagnostico o di psicologia. La nostra è sicuramente 𝘂𝗻𝗮 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗽𝗮𝗿𝗼𝗹𝗮, 𝗻𝗼𝗻𝗰𝗵é 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗶𝗺𝗺𝗮𝗴𝗶𝗻𝗶 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗵𝗲, perché sono esse che cureranno il paziente, non le idee o il metodo standardizzato del terapeuta di turno. Avete capito bene, sì: la terapia sta già nella vostra psiche sottoforma di simboli, immagini e nomi. Nell’etimologia di ogni parola c’è infatti il teonimo che la governa, ovvero la qualità di energia naturale che essa esprime e rappresenta. Per cui, a seconda della parola che ci viene da dire in un discorso, la nostra psiche comunica una immagine differente, che corrisponde oggettivamente a una diversa qualità di energia psichica attiva al momento, e perciò un diverso bisogno da soddisfare. Capite a questo punto quanta “psiche” perdiamo, nella seduta di terapia come in ogni altro momento della giornata, senza parlare ponendo attenzione a ciò che diciamo e a come lo diciamo, senza una attenzione al divino contenuto nel linguaggio. Praticamente tutto, perdiamo la nostra anima, le sue innumerevoli immagini e il suo racconto dettagliato, per focalizzarci sempre solo sulle 80 parole circa che oggi usiamo correntemente. L’analfabetismo di ritorno, oggi, è la più grave fonte di disagio psichico e passa inosservato persino allo psicologo più moderno e preparato, che ne è lui stesso soggetto.
L’attività autonoma della psiche di produrre immagini come parole, l’immaginazione, è di per sé 𝘱𝘰𝘪𝘦𝘴𝘪𝘴, ovvero una modalità estetica ed artistica di vivere le esperienze e gli eventi psichici nell’essere umano. “𝙇’𝙞𝙙𝙚𝙖 𝙙𝙞 𝙗𝙖𝙨𝙚 𝙥𝙤𝙚𝙩𝙞𝙘𝙖 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙨𝙤𝙩𝙩𝙞𝙣𝙩𝙚𝙣𝙙𝙚 𝙘𝙝𝙚 𝙪𝙣𝙖 𝙥𝙨𝙞𝙘𝙤𝙡𝙤𝙜𝙞𝙖 𝙘𝙖𝙥𝙖𝙘𝙚 𝙙𝙞 𝙧𝙖𝙥𝙥𝙧𝙚𝙨𝙚𝙣𝙩𝙖𝙧𝙚 𝙖𝙪𝙩𝙚𝙣𝙩𝙞𝙘𝙖𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙡𝙖 𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙙𝙤𝙫𝙧à 𝙞𝙢𝙥𝙖𝙧𝙖𝙧𝙚 𝙖 𝙚𝙨𝙥𝙧𝙞𝙢𝙚𝙧𝙨𝙞 𝙘𝙤𝙣 𝙞𝙡 𝙡𝙞𝙣𝙜𝙪𝙖𝙜𝙜𝙞𝙤 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙥𝙤𝙚𝙨𝙞𝙖”, scrive Hillman in “Psicologia alchemica”, “𝙪𝙣 𝙘𝙤𝙢𝙥𝙞𝙩𝙤 𝙘𝙝𝙚 𝙣𝙤𝙣 𝙙𝙚𝙫𝙚 𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙚 𝙡𝙖𝙨𝙘𝙞𝙖𝙩𝙤 𝙖𝙞 𝙨𝙤𝙡𝙞 𝙥𝙤𝙚𝙩𝙞, 𝙘𝙤𝙨ì 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙡’𝙤𝙣𝙚𝙧𝙚 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙛𝙤𝙡𝙡ì𝙖 𝙣𝙤𝙣 𝙙𝙚𝙫𝙚 𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙚 𝙡𝙖𝙨𝙘𝙞𝙖𝙩𝙤 𝙨𝙤𝙡𝙩𝙖𝙣𝙩𝙤 𝙖𝙞 𝙢𝙖𝙡𝙖𝙩𝙞 𝙙𝙞 𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚”. Per Hillman, il linguaggio è la componente essenziale stessa di ogni nevrosi: quando l’io si fissa su certe immagini rimuovendone altre, la sua unilateralità è celata nel linguaggio del paziente che esprime i suoi immaginari, il suo punto di vista, la sua versione dei fatti, le sue credenze, i suoi valori ecc., mentre gli immaginari rimossi della psiche emergono dai suoi sintomi, dai lapsus, dagli atti mancati, dai sogni, dalle parti di sé che rimangono in ombra e che il paziente disconosce o giudica negativamente proiettandole sugli altri. Tutto ciò è celato nel linguaggio del paziente, e nelle specifiche parole che usa (o non usa).
Prestando attenzione allo stile del discorso, non solo ai contenuti ma all’intensità o alla freddezza, al tono e al colore delle parole, all’enfasi o alla stereotipia delle parole, si puo’ giungere direttamente al letteralismo dell’io, ovvero laddove restiamo impigliati nella sostanzializzazione dei concetti, per primo lo stesso concetto di “io”. Tutto quello che raccontiamo di noi stessi, “io sono questo… io non sono questo…io credo che … io penso che… io voglio…. io non voglio… ecc.”, parla del suo letteralismo. Ma, come dice Hillman, chi ha mai incontrato l’io? L’io è sempre una costruzione di immagini, appositamente scelte dalla nostra coscienza, e non sono la nostra psiche, ma solo una frammentaria parte di essa, appositamente selezionata nel tempo e nelle esperienze di vita, spesso inconsciamente, come più o meno accettabili e quindi “raccontabili” a se stessi e agli altri. Il racconto delle nostre convinzioni, i nostri moralismi, le nostre battaglie etiche, i nostri scontri verbali, le nostre richieste relazionali, portano nelle loro parole le immagini della psiche che sono state letteralizzate in verità assolute e in ciò che riteniamo giusto per noi stessi. Ma è la nostra psiche a sapere chi siamo e a decidere man mano di cosa abbiamo bisogno, non siamo noi nella nostra limitata coscienza e conoscenza. Tutte le immagini di noi stessi che disconosciamo, la nostra psiche ce le presenterà comunque: negli agiti, nelle paure, nelle fobie, nei sintomi, negli incidenti, nelle irrefrenabili voglie, nelle ossessioni, negli scoppi di rabbia, nella depressione, nelle paranoie, nelle malattie. E saranno sempre immagini, cioè energia, vissuti esperienziali, non cose materiali, né comportamenti standardizzati. Un bisogno di amore non si risolve con un nuovo appuntamento, un bisogno di stabilità non significa che dobbiamo stare fermi nello stesso luogo, un bisogno di pulizia e ordine interiore non necessita un appartamento sempre pulito e disinfettato. Viceversa, se non svolgeremo questi compiti psicologici, cioè che la psiche nella psiche attiva, saremo agiti da queste immagini in comportamenti compulsivi e ossessivi, che rappresentano sintomaticamente (cioè simbolicamente) il tipo di energia che, come immagini psichiche, noi non vogliamo accettare nella nostra coscienza e direzionare nella nostra vita in azioni conseguenti.
Per Hillman, tutta la psicologia deve essere deletteralizzata. Qui entra in gioco il linguaggio dell’ 𝗮𝗹𝗰𝗵𝗶𝗺𝗶𝗮, il complesso di conoscenze e pratiche filosofiche esoteriche utilizzato per trasmutare metaforicamente i metalli vili in oro, finito al termine del Rinascimento con il sorgere del metodo sperimentale nelle scienze. Prima che la psiche fosse assimilata alla mente e al cervello, e che la natura e i suoi elementi venisse completamente materializzata e privata di anima, il lavoro psicologico era descritto allegoricamente con un linguaggio poetico ricco di simboli e metafore, che non utilizzava concetti razionali letterali, ma parole-cose, parole-immagini, parole-azioni, che per sé sono già simboli e metafore, ovvero sono già linguaggio dell’anima e le fanno prendere corpo nelle sue stesse immagini. La nostra psiche si presenta in natura e ci parla secondo questo linguaggio che ripudia il letteralismo unilaterale dell’io e propone un ermetismo della parola, per cui in alchimia come in natura e nella psiche nessun termine significa una sola cosa, ma assume un certo significato simbolico a seconda del contesto, un po’ come nel linguaggio degli ideogrammi. Ciascun fenomeno alchemico è allo stesso tempo il suo opposto, è sia materiale che psicologico, sia concreto che metaforico. Parlando allo stesso modo del sogno, il linguaggio dell’alchimia redime la materia deletteralizzandola dai nostri concetti, imponendoci la metafora come effetto terapeutico. Quando noi usiamo metafore per descrivere ciò che viviamo, stiamo creando e amplificando le immagini che rappresentano quell’energia psichica, e il “come se..” che utilizziamo ci inizia alla comprensione delle forze che stanno agendo nella nostra psiche. Come quello della poesia, ricco di metafore e immagini simboliche, il linguaggio dell’alchimia è il modo più naturale che abbiamo di psicologizzare noi stessi e il mondo.
Parlare con un linguaggio alchemico e poetico è “fare anima”, ovvero tradurre in immagini simboliche le energie della psiche e iniziarci alla loro comprensione. Così come certi versi di una poesia, certe immagini di un romanzo o di un film, certe parole di una persona cara ci commuovono e ci cambiano dentro, così il linguaggio della psicoterapia – e in primo luogo del terapeuta! – deve avere un certo “calore” capace di cuocere certi elementi psichici e smuovere la materia psichica, trasmutandola in nuove immagini, ovvero in una nuova visione nel paziente. Péitho, la forza persuasiva della psicoterapia, come nell’antica arte della retorica è il “fuoco” alchemico che il terapeuta deve imparare a usare in analisi per “scaldare”, “entusiasmare”, “esaltare”, “accendere”, “inspirare” il materiale che stiamo lavorando col paziente, che sono sempre le sue immagini psichiche. Questo “fuoco”, come calore psichico, è ciò che attiva l’immaginazione attiva nel paziente, la funzione trascendente di cui parla Jung, ovvero la capacità di ottenere un cambiamento nelle immagini e nella visione, un livello psicologico più evoluto. Gli psicoterapeuti oggi andrebbero anzitutto addestrati all’arte dell’oratoria, e il fuoco alchemico andrebbe conosciuto in tutte le sue gradazioni, le sue fonti e i suoi combustibili metaforici. Nella psicoterapia analitica archetipica, che utilizza anche il linguaggio metaforico dell’achimia, questo “fuoco” viene modulato dal terapeuta durante la seduta analitica per permettere e produrre effetti differenti nella psiche del paziente, sulle diverse sostanze psichiche – sempre le immagini – nelle diverse occasioni e modalità in cui esse si presentano. Stimolando un’attenzione accurata per le immagini, compiendo espressioni poetiche, trattando i materiali psichici come aventi “anima”, il fuoco del discorso viene regolato per intensità e alimentato aggiungendo e sottraendo aria, come immagini e parole che “inspirano” il paziente e trasformano i suoi immaginari, cioè il suo modo di vedere e vivere le cose. Allora domandatevi se, dopo una seduta con il vostro terapeuta, siete rimasti ispirati o colpiti da ciò che avete detto, se vi sentite “smossi”, se vi siete commossi o affranti, se avete provato emozioni e trovato parole intense e vive come esse. In questi casi, nel bene come nel male, la psicoterapia starà sortendo i suoi effetti.
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