Cos’è che cura in psicoterapia?

Sfatiamo subito un mito: non esiste un metodo migliore di un altro, perché tutte le psicoterapie finiscono per sortire un effetto positivo sulla psiche, almeno nella stragrande maggioranza dei casi. Gli studi sulla validità delle varie psicoterapie lo hanno già ampiamente dimostrato, anche se ciò si pone in disaccordo con il titolo di questo articolo (ma capiremo alla fine in quale senso). Per cui le ricerche comparative tra modelli psicoterapeutici sono già state abbandonate, in quanto dimostrano inutilmente quello che si sa già, cioè che tutti gli approcci funzionano ugualmente bene.

Quello che ancora non è chiaro ai più è il come e il perché la psiche umana reagisca positivamente alle varie psicoterapie. Ragioniamoci su un momento: dev’esserci qualcosa in comune, uno stesso meccanismo di azione e funzionamento, sia nel metodo che nella psiche. La conclusione finora è stata che ciò che realmente cura è “la relazione terapeutica”, spiegazione che ha messo un po’ tutti tranquilli: basta allora sentirsi accolti dal terapeuta, andare d’accordo con lui e con ciò che dice, insomma diventarci amico.

Eppure questa spiegazione è ancora così troppo semplicistica e riduttiva, nonché per me fuorviante. Alcuni psicoterapeuti, infatti, si sentono in essa protetti, tranquilli, della serie: tanto va come deve andare col paziente, e se non va che se ne vada e chissenefrega. Così succede che gli analisti si innamorino di alcuni pazienti, che considerino alcuni pazienti più “buoni”, e inizino a detestarne o a snobbarne altri, considerandoli “cattivi” solamente perché considerano la psicoterapia perlopiù un fenomeno affettivo. Allora alcuni pazienti si irretiscono, parlano male degli psicologi e della psicoterapia sui blog e su internet, come quelli che si lamentano dei medici e della sanità perché non vengono accolti, curati e compresi come essi vorrebbero. Dall’altra parte, sento colleghi parlare male di certi pazienti, dire che non si impegnano, che non hanno un sufficiente livello culturale, che sono “inguaribili”. Come se per smettere di soffrire uno debba prima conoscere l’impegno e l’attenzione che richiede il suo analista. Come se alla sofferenza non fossero tutti ugualmente soggetti. Come se in alcuni essa fosse il loro unico destino. Invece noi sappiamo che la sofferenza esiste in ragione di un destino diverso, poiché il dolore è un messaggio della psiche, è un segnale necessario che serve ad attuare un cambiamento. Altrimenti il paziente vivrebbe tronfio e contento nelle condizioni psicofisiche in cui versa. Se la psicologia non ha ancora preso credito come pratica terapeutica allo stesso modo della medicina, è proprio perché non si è ancora chiarito come essa curi i pazienti, e si relega alla sola relazione terapeutica il barlume di fiducia del paziente e l’esperienza del professionista.

Immaginate se la medicina fosse ridotta a questo: a giustificare la propria efficacia nella sola relazione tra medico e paziente. Certamente, come è stato dimostrato in molti studi, la guarigione sarà più veloce e duratura laddove il medico si preoccupi e si interessi maggiormente del suo paziente, e laddove viceversa il paziente abbia più stima e fiducia del proprio medico. Ma in medicina come in psicologia, la guarigione da una patologia non è mai solo questo. Ci sono meccanismi neurofisiologici e biochimici sottesi, ci sono agenti naturali (ad es. batterici, micotici o virali) coinvolti; ci sono sostanze che vengono assunte o prodotte e che possono condizionare il suo esito o decorso. E’ come se noi ci limitassimo a voler dire “trovati il medico che ti piace e con cui instauri un buon rapporto, e la tua candidosi guarirà per certo”. Per cui, riconosciuta l’insufficienza di questa spiegazione, vogliamo un attimo ragionare su cosa possa essere questo substrato di lavoro che hanno in comune tutte le psicoterapie. Come si fa una psicoterapia, qualsiasi? Parlando, cioè con le parole. Mi sembra ragionevole affermare che una buona psicoterapia si faccia con parole buone o giuste, cioè quelle che fanno balenare l’insight nella mente, il collegamento di senso che induce all’azione e a un nuovo atteggiamento. Sono le parole che portano nuovo significato all’evento vissuto, la soluzione al problema che ci fa stare male, proprio come in medicina la buona riuscita di una terapia deriva dalla bontà della medicazione, del farmaco e di un trattamento. Ma cosa sono le parole, il farmaco che noi prendiamo in terapia? E come si fa a sapere quali sono quelle buone, quelle che sortiscono un effetto?

Veniamo al dunque: le parole sono IMMAGINI, e le immagini sono il linguaggio della nostra psiche. La parola emerge nel discorso assieme all’immagine mentale o simbolica di ciò che descrive, sia che essa descriva un oggetto, un’azione, un evento, una percezione o quant’altro. Ogni parola è perciò una immagine simbolica che si collega alle altre con un nesso di senso, e crea un certo significato. Che siano parole o immagini di un sogno o ricordi o riflessioni o nomi e numeri e forme e personaggi e oggetti di cui parliamo, sempre di immagini si tratta. Parlando con il terapeuta, noi re-immaginiamo le parole, cioè le immagini, che diciamo. E lo facciamo sempre, sia raccontando un evento che ci è accaduto, sia descrivendo una immagine vista in un sogno, sia ragionando e rispondendo ciò che ci viene in mente da dire con il terapeuta. Abbiamo capito oggi che la psicoterapia è sempre una terapia delle parole, e abbiamo trovato il suo principio attivo, quello che cura: le immagini della psiche. Non è vero, lo avevano già capito Eraclito, Platone, gli antichi. Ma che vuoi farci, la storia è ciclica: è un processo a spirale, che per evolvere tende a finire e ricominciare, a morire e rinascere. E a riscoprire di nuovo – come tutta la scienza moderna – ciò che gli antichi già avevano capito.

James Hillman diceva che la malattia è una “carenza di immagini”, per cui il processo di sofferenza psicologica che sta alla base di ogni disturbo psicofisico è determinato da una carenza nella evocazione ed elaborazione cosciente e consapevole di immagini e contenuti inconsci. Significa che soffriamo perché ci mancano le “immagini giuste”, ad esempio perché non abbiamo elaborato l’immagine di quel lutto, o di quella perdita, o di quelle parole, o di quel gesto, o di quel fatto che ci è accaduto e che non è stato in sintonìa con il nostro modo di essere e il nostro comportamento. I cognitivisti direbbero che dentro di noi quello stimolo ha lasciato un mismatching, ovvero una “mancata corrispondenza”: cioè nella nostra memoria esso non ha trovato un posto coerente col resto, e prima di estinguersi la reazione neurofisiologica resta lì ad “aspettare”, come a domandare che lo stimolo venga in qualche modo appreso, riconosciuto e catalogato. Cosa significa che soffriamo perché ci mancano le immagini giuste? Forse significa che il catalogo delle immagini presenti nella nostra psiche manca di un collegamento per far posto a quello stimolo diverso, perciò se lo stimolo discordante si ripete, essa entra in conflitto o in crisi.

Quando per la mia tesi di laurea, nel lontano 2004, registravo i correlati EEG dell’attività del sistema nervoso dalla testa dei ragazzi che aspettavano un certo stimolo sensoriale e ne ricevevano uno diverso, dopo quest’ultimo visualizzavo nel loro tracciato una Mismatch Negativity (MMN) molto più ampia e prolungata nei soggetti più ansiosi, sensibili al dolore o iperattivi. La MMN, chiamata anche negatività da discordanza, è un’onda negativa che viene registrata da qualsiasi sistema sensoriale, che cioè coinvolge tutto l’organismo, ed è una componente dell’onda suscitata da un qualsiasi potenziale evento-correlato (in inglese event-related potential, ERP) in risposta a uno stimolo discordante in una sequenza di stimoli. Non so se avete presente quando a un certo punto sentite una parola strana o vedete qualcosa che vi distrae o vi colpisce: la vostra attenzione improvvisamente si raccoglie e si focalizza sullo stimolo discordante, e tutti i sistemi cognitivi sono improvvisamente all’opera per riconoscerlo e trovargli un senso, un significato o una spiegazione in base alle conoscenze e alla preparazione che già abbiamo su di esso.

Possiamo immaginare che ogni stimolo discordante lasci nel nostro inconscio una MMN di ampiezza tanto maggiore quanto è l’incapacità di ri-conoscere quello stimolo e trovargli una collocazione coerente e “non disturbante” nella nostra psiche in quanto discordante. Ciò che ci “disturba”, infatti, è la reazione affettiva discordante, che è fisiologica, emotiva, propriopercettiva ma allo stesso tempo la sua immagine inconscia e non percepita che resta nella psiche. Fisiologicamente, questa reazione affettiva si traduce in una MMN che depolarizza e mantiene depolarizzate ampie aree neuronali periferiche e centrali, contrassegnando lo stimolo o l’evento come spiacevole, intenso e impegnativo, e questa aumentata attività qualora ripetuta nel tempo puo’ tradursi in uno stress neuronale e a meccanismi infiammatori di plasticità nervosa. Psicologicanente, diremmo che l’evento disturbante o perturbante produce una “affezione”, cioè un fenomeno passivo della coscienza, per cui si forma una immagine simbolica che ne racchiude il significato diverso. L’immagine viene pescata da quelle già presenti di default nella memoria, cioè dagli archetipi che accadono nello stesso tempo, ovvero in sincronicità con lo stimolo diverso.

Gli archetipi sono quelle immagini che tutti conoscono, che sono per tutti “normali” poiché universalmente presenti in natura, e che per la psiche sono come “modelli” o forme di conoscenza comune e condivisa. L’immagine archetipica assorbe quindi il significato negativo dell’evento o dello stimolo discordante nel suo valore affettivo negativo associato, per cui nell’affezione si tende a dare meno importanza cosciente all’evento discordante che provoca un affetto negativo, e a dissociarlo dal suo significato negativo proprio per non subirne costantemente l’effetto. Ciò accade in quanto se l’immagine diversa dell’evento, vissuta negativamente, restasse presente nella nostra coscienza sottoforma di “domanda” o “richiesta di ulteriore attenzione”, , non riusciremmo a pensare ad altro finché non saremmo in grado di “sistemarla” e normalizzarla nella nostra memoria, e perciò finiremmo in qualche guaio.

Allora come fa il neurofisiologo quando somministra alcuni stimoli e registra il tracciato EEG analizzando le onde cerebrali e la MMN del paziente per individuare (nei valori della sua immagine sul monitor dell’elettroencefalografo) il disturbo o la lesione nervosa, così fa lo psicoanalista con il racconto degli eventi personali del paziente per individuare nelle immagini del suo racconto qual è il disturbo o la lesione dell’immagine stessa. Tradotto nella terminologia della psicoterapia archetipica: l’analisi individua quelle immagini che il paziente ha bisogno di rivedere e “re-immaginare” con un professionista per superare il problema associato al non aver ben compreso quello stimolo o quell’immagine o quell’evento vissuto, cioè per capirne il valore, il senso e il significato che esse hanno avuto all’interno del suo vissuto, cambiandone il valore affettivo associato e riadattandole insieme alle altre.

Avere cura delle proprie immagini significa curare la psiche. Nel momento che l’immagine viene rivista e ad essa vengono restituiti tutti i suoi significati simbolici grazie all’aiuto dell’analista, il paziente puo’ ri-conoscerla e ri-conoscersi con essa, ed identificare il significato che l’immagine ha avuto nel complesso del suo percorso di vita, ma che lui non aveva ancora colto, attribuendogli perciò un nuovo valore, e formando nuove immagini con esso, che ora saranno catalogate come coerenti tra esse in memoria. Come le tessere giuste di un puzzle, queste immagini ricomposte in modo nuovo ricomporranno a loro volta il quadro del puzzle in una configurazione non più discordante con dei pezzi spaiati o mancanti, ma in un quadro più ampio e completo di se stesso, degli altri e del mondo in cui vive.

Veniamo ora a sciogliere il quesito che dà il titolo a questo articolo, e che si poneva subito in discordanza con quanto affermato subito dopo nelle prime righe: se è vero che tutte le psicoterapie sortiscono un effetto positivo, allora perché la psicoterapia archetipica dovrebbe essere l’unica efficace per la psiche? Spero che nella vostra mente si sia creata una bella MMN, cioè che abbiate percepito la “discordanza” e la “mancata corrispondenza” tra le due affermazioni. Perché ora vi rivelo qualcosa che l’immagine della psicoterapia che avevate finora non vi permetteva di vedere e di mettere insieme le due affermazioni in un nesso di senso: la psicoterapia, tutte le psicoterapie, sono un parlare dell’anima, che è fatto di immagini.

Per chi non conoscesse ancora che cos’è la psicoterapia archetipica, rimando a un altro articolo pubblicato precendentemente. Per chi avesse curiosità di sapere cosa si intende per “anima”, e perché nella psicologia di oggi è necessario recuperare questo antichissimo ed eterno concetto, c’è pure un altro articolo in questo blog. Qui mi preme dire che la psicoterapia archetipica, riconoscendo che il linguaggio simbolico della psiche è fatto di immagini, e parlando direttamente delle immagini del paziente, va subito al dunque del suo problema. La psicoterapia archetipica non gira attorno al simbolo, al sintomo o all’immagine della psiche, trattandola come qualcosa da correggere e poi finendo lo stesso per accettarla nel parlarne, nel tentativo di “normalizzarla” con una diagnosi e con un trauma alla base che gli giustifica un posto nel mondo. La psicoterpia archetipica utilizza direttamente l’analisi immaginale di ogni sitomo, fantasìa, sogno, ricordo, riflessione, simbolo, lapsus, dimenticanza, fatto, evento, accadimento, stranezza, parola (o semplicemente, un termine per riunirle tutte: IMMAGINE) apparentemente banale ma su cui sì che cade l’attenzione del soggetto e che in questo crea disappunto, disconferma, incongruità, disagio, disturbo, fastidio, sofferenza, intolleranza etc. Ovvero, quella discordanza e mancata corrispondenza registrata dai neurofisiologi in un’onda MMN esagerata e ripetutamente presente nella nostra mente, in termini archetipici noi la tradurremmo come un archetipo o un’immagine inflazionata.

In poche parole, senza saperlo, ogni psicoterapeuta sta lavorando con le immagini e gli immaginari del paziente, solo che a seconda dell’approccio metodologico lui puo’ chiamarle modelli, complessi, sistemi, oggetti, processi, meccanismi, reazioni, intenzioni, funzioni, disposizioni, energie, attività, memorie e chi ne ha più ne metta come da un dizionario di psicologia. Ma sempre tutte quante sono IMMAGINI, sia come parole che come concetti. Lo psicologo archetipico tiene sempre ben presente che che la psiche parla per immagini, e che a sortire l’effetto terapeutico non è la sola relazione col terapeuta, ma il parlare stesso fino a che le immagini giuste si presentino nella psiche. Ed è per questo che è addestrato a riconoscere nelle parole del paziente le immagini della sua psiche. Lascio a voi immaginare le possibili implicazioni nello scegliere una psicoterapia piuttosto che un’altra. Io qui concludo sfatando invece un altro mito: non ci sono parole buone o cattive, così come non esistono immagini migliori di altre. Nel racconto del paziente, ci sono soltanto le immagini della sua psiche. La bontà dell’effetto dell’immagine, come della parola, succede nel collegamento di senso che il paziente fa con ciò che accade “nello stesso tempo” alla parola, o all’immagine nel discorso. È proprio questo il modo in cui ciò accade: nella SINCRONICITÀ. Ma qui c’è bisogno di un altro articolo con altre parole e immagini per raccontarlo.

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