La psicoterapia è scienza o arte?

Scienza e arte sono le conquiste culturali più elevate del genere umano, e vengono spesso menzionate nello stesso contesto, nella misura in cui esse rappresentano modi distinti di vedere il mondo. Da una parte, ragione e comprensione oggettiva vengono impiegate dallo scienziato per investigare le leggi della natura attraverso l’osservazione imparziale e la sperimentazione, studiando le sue innumerevoli manifestazioni. Dall’altra, l’artista sfrutta capacità personali e immaginazione per creare opere che risvegliano sensibilità estetiche in se stesso e negli altri. Lo scienziato, lottando per l’obiettività, cerca di evitare sopra ogni altra cosa la soggettività istintiva in quanto, come ricercatore, è alle prese con i problemi oggettivi che affliggono il mondo; l’artista, seguendo la sua fantasia e le sue sensazioni, si sforza a di creare qualcosa di nuovo e gratificante.

In realtà, tuttavia, scienziati e artisti raramente incarnano tipi di personalità differenti: sia lo scienziato che l’artista si sentono obbligati a esaminare più da vicino la bellezza e i problemi irrisolti di questo mondo, e allo stesso modo sono curiosi verso di esso. Entrambi si divertono a sperimentare, il che gli permette di imparare cose stupefacenti. Entrambi vorrebbero capire come il loro lavoro possa essere efficace ed utile agli altri, quale ruolo nella società giochi il loro operato e quale sia, per esempio, il valore dei monumenti o delle facciate dei palazzi che essi hanno realizzato o abilmente decorato. E ancora, entrambi sono segnati da un forte bisogno di esprimere se stessi, anche se lo scienziato è primariamente preoccupato dalla conoscenza relativa, mentre l’artista fa appello all’emozione del suo prossimo.

Ad esempio, l’artista non è così attratto dal numero degli stami di un fiore quanto piuttosto dalla sua bellezza, dal carisma di una persona o dall’atmosfera di un mare in tempesta. Egli vorrebbe esprimere ciò che sente: la sua visione del bello, del nobile, dell’onorabile, del sublime e dell’orribile. Astrattamente e puntualmente, egli ricerca la chiave dell’anima per mezzo dell’alienazione così come dell’esagerazione. Ma anche gli interessi dello scienziato risiedono nella “bellezza”. Questi puo’ scoprirla nella soluzione di un problema, che gli sembrerà come elegante. Più lo scienziato naturale – ad esempio, il biologo – apprende dai meccanismi della natura organica, più resta affascinato dal miracolo della vita, e la bellezza gli si rende manifesta nelle cose più piccole di essa. Al contrario di alcune affermazioni, la conoscenza non disincanta, ma invece dispiega meraviglie sempre nuove sotto i nostri occhi. Perciò gli artisti somigliano a scienziati nel loro sforzo di cercare un mondo migliore attraverso l’esperienza estetica dell’immagine. Entrambi si sentono grati a tutto ciò che è buono, bello e vero, e nella loro ricerca di una verità “ultima”, non è poi così raro che entrambi possano perdere di vista la realtà e in qualche modo impazzire, come la dea Afrodite faceva con coloro che non rispettavano e onoravano il suo potere.

Questo perché scienza e arte sono due modalità, parallelamente attive in ciascun individuo, attraverso cui la coscienza umana processa una stessa realtà che non è solo esterna e appartenente al mondo fisico della materia, ma anche interiore e “profonda”, appartenente al mondo psichico dei simboli e delle immagini archetipiche. Questa diade appare già presente se analizziamo neurofisiologicamente l’attività del nostro cervello: se infatti l’emisfero sinistro (quello che controlla la parte destra del corpo) appare più “scientifico” poiché specializzato per compiti e attività logico-matematiche prediligendo un ordine di pensiero di tipo razionale e lineare, l’emisfero destro (che controlla la parte sinistra del corpo) è prevalentemente attivo in attività creative che utilizzano sensazioni ed emozioni in modo apparentemente irrazionale e sincronistico, per cui puo’ essere definito “artistico”. Nei mancini, i due emisferi funzionano in modo contrario; è comunque ormai risaputo in psicoterapia che un sintomo o un problema del corpo che coinvolga una zona controllata dall’emisfero “scientifico”, o alternativamente dall’emisfero “artistico”, abbiano in qualche modo a che fare con una delle due modalità di funzione, e in psicosomatica la conoscenza del significato simbolico dei sintomi e delle malattie gioca un ruolo chiave nella terapia.

Possiamo dire che dentro di noi esista un’anima artista e allo stesso tempo anche votata alla conoscenza, e per questo già gli antichi immaginavano l’esistenza delle Muse, divinità che presiedevano sia alle arti che alle scienze, sia ai diversi generi poetici e del canto, che a tutte le attività intellettuali. Figlie di Zeus e Mnemosine (la Memoria), naturalmente collegate ad Apollo loro guida, il culto delle Muse assunse un carattere particolare nella tradizione pitagorica, in Platone e Aristotele, le cui scuole furono in una certa misura organizzate come associazioni a loro dedite. Il termine ‘museo’ passò così ad indicare, come per quello di Alessandria d’Egitto, un luogo riservato allo studio e all’istruzione oltre che all’arte. Nel mondo romano e in seguito nella storia, le muse continuarono ad essere invocate da poeti e artisti nelle loro opere.

D’altra parte, sappiamo dai moltissimi esempi nella storia che la scoperta scientifica, aldilà dei propri studi e del tipo di istruzione, a un certo punto “appare” all’uomo come una vera e propria epifanìa, spesso in sogno, in visioni o in circostanze del tutto inaspettate, come quella della penicillina da parte di Pasteur, o quelle dei fiammiferi e della dinamite, della plastica, dei raggi X, della radioattività, della corrente alternata, delle microonde, dell’ossigeno, della gravità e della relatività, della fotografia, di molti farmaci come l’insulina, il Viagra o le sulfaniluree, o alcuni fondamentali vaccini come quello per la malaria. Tempo fa, parlando con un anziano che in passato aveva lavorato con successo come artigiano del legno, questi mi raccontò che l’idea di come lavorare il legno per realizzare un mobile gli appariva come una serie di immagini molto dettagliate, spesso al mattino appena si svegliava, per cui si ricavava sempre almeno un paio d’ore per scendere in negozio prima dell’apertura e iniziare a fare il disegno di ciò che in quelle immagini vedeva. Per lui, usando le sue stesse parole, “lavorare il legno era come una vocazione, una vera passione, qualcosa che forse Dio stesso mi metteva nella mente e nelle mani, perché dopotutto non avevo studiato nulla di tutto quello che studiano oggi gli artigiani nelle scuole, ma ancora saprei fare molto meglio di molti di questi che hanno progetti già stampati su un foglio e lavorano più che altro per denaro, con risultati spesso deludenti”. Chi come me lavora da molti anni come ricercatore, riconosce senza dubbio un ruolo fondamentale nell’intuizione e nella sensazione anche nella produzione scientifica: esse sono funzioni inconsce e quindi “divine” nel senso che si presentano alla nostra coscienza come vere e proprie immagini, idee, voci come funzioni autonome della psiche che operano in senso creativo, e quindi poetico e artistico.

Se dall’illuminismo in poi le riforme dell’istruzione accademica si sono sempre più adattate alle richieste dell’industria, e gli studi scientifici sono stati perlopiù distinti da quelli umanistici, la rivoluzione digitale dagli anni 60 e le nuove tecniche di produzione artistica negli ultimi decenni hanno indotto un ritorno a una visione unitaria di arte e scienza. Già la psicologia della Gestalt dagli anni trenta (vedi ad esempio gli studi di Wolfgang Metzger) fino allo sviluppo della Neuroestetica negli anni novanta (vedi ad esempio il bellissimo libro ‘La visione dall’interno’ di Semir Zeki) hanno approfondito le nostre conoscenze sul cervello visivo e sulla formazione dell’esperienza estetica, ovvero delle basi neurologiche (e quindi biologiche) dell’esperienza emotiva (e quindi psicologica) della “bellezza” e di ciò che viene considerato artistico. Tuttavia il pensiero scientifico da solo non è ancora in grado – e non potrà mai esserlo completamente – di essere veramente artistico, così come l’arte non puo’ definirsi in un solo algoritmo senza la capacità immaginativa di chi lo costruisce. Scienza e arte sono due aspetti dell’attività autonoma della psiche di formare immagini sottoforma di pensieri e parole, che rappresentano il materiale principale della nostra psicoterapia. Oggi siamo sempre più disorientati, soprattutto i più giovani che si affacciano al mondo del lavoro, a una scelta tra l’una o l’altra parte di noi stessi, sentendoci costretti a doverci identificare nell’una o nell’altra parte: siamo ingegneri o creativi? Avvocati o poeti? Muratori o artigiani? Ricercatori o psicologi?

Già da giovane Jung si interrogava sul fatto se fosse uno scienziato o un letterato. Nella sua autobiografia, racconta che al tempo dell’iscrizione all’università si risolse per le scienze, e che furono proprio dei sogni a chiarirgli ogni dubbio. In uno in particolare, Jung aveva sognato una gigantesca Radiolaria, protozoo marino dalla forma sferica stellata ed estremamente simmetrici, dall’aspetto meravigioso come quelle rappresentate da Ernst Haeckel, il famoso biologo naturalista e artista dello stesso periodo a cavallo tra ottocento e novecento (vedi ad esempio le bellissime illustrazioni nella sua raccolta ‘Art forms in Nature’). La visione di questa immagine onirica fece sorgere in Jung un intenso desiderio di conoscenza per i simboli e le immagini archetipiche della natura, dandogli la certezza che il suo destino fosse compiuto nella scienza. Nell’immagine stessa della Radiolaria, possiamo oggi ritrovare un simbolo del Sé, un mandala di unità e perfezione, che come essere vivente microscopico del mare simbolizza una realizzazione nella scoperta della vita nelle oscure profondità dell’inconscio. Infatti, Jung non fu propriamente soltanto un medico. Nella psichiatria attraverso la sua ricerca empirica parallela a quella interiore, Jung trovò un modo di lavorare con tutti gli aspetti della sua personalità, un vero e proprio modo di “stare al mondo” per lui completo e soddisfacente. Ci arrivò ovviamente passando per un lungo periodo di crisi, in cui sentì la necessità di rompere con Freud e la sua psicanalisi e isolarsi per trovare se stesso rifondando la psicologia nella propria immaginazione. In questo modo, Jung non solo comprese il senso della sua esistenza, ma fu in grado di conoscere il linguaggio della psiche inconscia dell’essere umano, e di tradurlo in un metodo psicoanalitico sia creativo che oggettivo, certamente più scientifico di quello freudiano basato sul dogma della sessualità. In sostanza, per conoscere l’inconscio, recuperando il significato simbolico delle sue immagini psichiche e di quelle che gli raccontavano i suoi pazienti, Jung stava creando la nostra psicoterapia.

A un certo punto Jung si fece una domanda: “Mentre annotavo le mie fantasie, una volta mi chiesi: ‘Che cosa sto facendo realmente? Certamente ciò non ha nulla a che vedere con la scienza. Ma allora che cos’è?’. Al che una voce in me disse: ‘È arte’. Fui sorpreso, non mi era mai passato per la testa che le mie fantasie potessero avere a che fare con l’arte. Allora pensai: ‘Forse il mio inconscio ha dato forma a una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute’. Sapevo per certo che la voce proveniva da una donna, e vi riconoscevo la voce di una paziente, una intelligente psicopatica che aveva per me un forte transfert, e che mi si era impressa nella mente come una figura viva. Certamente ciò che stavo facendo non era scienza. Che cos’altro poteva essere allora, se non era arte? Sembrava che in tutto il mondo non ci fossero che queste due possibilità! […] Con molta enfasi, e decisamente restìo, dissi a questa voce che le mie fantasie non avevano nulla a che fare con l’arte. Allora la voce tacque, e io continuai a scrivere. Poi ci fu un altro assalto, e si ripeté la stessa asserzione: ‘Questa è arte’. E nuovamente io protestai: ‘No, non è arte! Al contrario, è natura’ “ (dal suo libro autobiografico ‘Ricordi, sogni, riflessioni’). Cosa significa che la psiche non è scienza, né arte, ma ‘natura’?

Jung trovò nella descrizione delle immagini spontanee (attraverso la narrazione e le parole) e nella loro fissazione (attraverso il disegno o la rappresentazione formale) un fondamentale metodo critico e analitico di conoscenza dei contenuti della psiche, e allo stesso tempo, di psicoterapia. Nell’estrarre i contenuti immaginativi, Jung ci ha insegnato a prestare ad essi attenzione lasciandoli fluire liberamente in senso creativo, da una parte, e vagliandoli in senso logico-razionale, dall’altra. Sostanzialmente nella psicoterapia analitica archetipica, le immagini vengono analizzate criticamente sia in modo artistico che scientifico, e il cervello artista e scientifico sono attivi insieme e collaborano nel “fare” il logos della psiche nel mondo. Questo è tuttavia un “fenomeno naturale”, ovvero attraverso il quale la natura segue il suo corso. Da un punto di vista professionale, lo psicoterapeuta che opera in modo junghiano-hillmaniano è sia un artista che uno scienziato della natura della psiche, ma chiaramente ciò che viene prodotto in analisi col paziente non è meramente scienza né veramente arte, essendo un tertuim non datur che si compie nell’hic et nunc col paziente, ovvero senza che poi ne resti necessariamente un prodotto definitivo, ‘lavorato’ e ‘fissato’ nella materia fisica come un dipinto, una scultura o uno scritto, semmai invece alchemicamente come trasmutazione degli immaginari psichici.

L’analisi è quindi – questa è la mia definizione – un’opera immaginativa che segue comunque i processi oggettivi della psiche, e che in questo modo solamente possono pertanto essere scientificamente studiati. Il materiale che viene rappresentato e così trasformato è quello psichico delle immagini e delle parole (che sono anch’esse immagini nella psiche), costituenti la realtà dell’anima, le forze e le energie che gli alchimisti ad esempio metaforizzavano con le loro formule e operazioni spargiriche sui metalli e sui materiali della realtà fisica della natura. Le immagini seguono le loro leggi e regole intrinseche, che sono del tutto oggettive poiché ontologiche aldilà dell’esperienza soggettiva: se io sogno un elefante bianco, quello è un elefante bianco, e il suo significato metaforico sarà quello del simbolo stesso e del colore specifico. In questo modo, questo metodo è anche ripetibile e scientifico. Jung fu il primo a parlare della ‘psiche oggettiva’, ma sarà soltanto con James Hillman e recentemente con gli studi di Yoram Kaufmann e i colleghi psicoanalisti ricercatori che si raggiunge una concezione ontologica dell’immaginazione psichica, anche se ad oggi sono ancora pochissimi gli psicoanalisti junghiani che hanno assimilato una pratica oggettiva e filologica delle immagini psichiche. Solitamente, infatti, si tende ancora a ricondurre il significato delle immagini psichiche a quello non ontologico ma personale dell’io, sia del paziente che dell’analista, con il metodo classico delle associazioni ai fatti e alle persone del mondo diurno, perdendo il significato psichico dell’immagine per sé. Hillman, e pure già Jung, ci hanno invece insegnato che l’immagine significa mai solo quello che di lei già sappiamo, e come gli antichi oracoli non mostra ma ‘indica’, suggerisce cioè un significato nascosto poiché della psiche incoscia, di ciò che attraverso l’immagine stessa viene metaforicamente rappresentato. Occorre quindi una gradissima conoscenza del significato simbolico delle immagini e del linguaggio, dei simboli e delle rappresentazioni culturali di tutte le epoche della storia, per poter risalire in modo filologico, e quindi corretto, a una interpretazione corretta e sensata degli immaginari psichici presenti in un sogno così come in un discorso.

Allora la nostra psicoanalisi è scienza o arte? Nessuna delle due, ma entrambe allo stesso tempo. Il risultato è sempre qualcosa di unico e speciale. Quando feci anni fa l’esame di Stato per l’abilitazione alla professione di psicologo, avendo un curriculum scientifico i due esaminatori mi chiesero cosa intendessi fare professionalmente come clinico. A quei tempi non avevo ancora idea di come avrei fatto, ma avevo in me la sensazione che forse avrei potuto fare sia psicoanalisi che scienza. Uno dei due mi disse: “Ha presente il Negroni? È un cocktail buonissimo. Ciò che lo rende speciale è proprio la combinazione differente di liquori di per sé piuttosto semplici, che da soli non avrebbero lo stesso valore. Io credo che lei saprà fare qualcosa di simile nella sua professione”. Come non ricordare le parole di Sigmund Freud, che in un’intervista del 1934 raccontava: “Io sono uno scienziato per necessità, non per vocazione. La mia vera natura è d’artista. […] In ogni modo ho saputo guadagnare, per una via traversa, il mio destino ed ho raggiunto il mio sogno: rimanere un letterato pur facendo, in apparenza, il medico. In tutti i grandi scienziati esiste il lievito della fantasìa, ma nessuno s’è proposto, come me, di tradurre in teorie scientifiche le ispirazioni offerte dalle correnti della letteratura moderna”. In effetti, il padre della Psicoanalisi, che era un medico, con i suoi casi clinici inventò un nuovo genere letterario, una nuova forma di “raccontare” la psiche che aveva la persuasività dell’empirismo medico e fondava sulla curiosità del lettore la costruzione della sua trama, come un giallo, fatta di suspence e incoerenze. James Hillman ce lo racconta ne “Le storie che curano” (1983), ricordandoci pure che l’unico riconoscimento che Freud ebbe nella sua vita fu proprio il premio Goethe per la letteratura, a coronamento della sua vocazione.

Nella sua grande revisione della psicologia e della psicoterapia in senso archetipico e ontologico, Hillman ci insegna che la nostra vera natura, la nostra personalità sana, non corrisponde all’uomo arcaico che vive come un primitivo, né certamente all’uomo moderno che ha perso il contatto con le immagini della propria psiche. L’armonia è raggiunta nell’uomo ‘poetico’, colui che prende atto della sua situazione ambigua nella società e in questa vita, della sua esistenza teatralmente ‘mascherata’ per poter stare al mondo, un po’ come Freud al suo tempo poteva essere un ‘letterato’ della psiche soltanto nelle vesti del medico. Sono molteplici i significati, le intenzioni e i destini che un individuo incarna in un determinato momento storico, per cui l’uomo è poetico nella misura in cui il suo essere artistico risiede nella sua capacità di immaginare e re-immaginarsi in ogni momento, e il suo essere scientifico e intellettuale nella capacità di fissare in attività concrete e modelli socialmente coerenti la propria capacità immaginativa.

L’immaginare stesso puo’ allora essere per noi uno ‘stile di vita’ che ci permette reazioni al contempo riflessive e immediate, aldilà dei tipici blocchi della coscienza che impone invece alla psiche una scelta discontinua costretta dalla domanda: “Chi sono io?“, a cui non possiamo che trovarci in conflitto nell’essere sia logici che fantasiosi, sia ‘scienziati’ che ‘artisti’, o a essere sia coerenti con se stessi che con ciò che ci chiedono di essere gli altri. Eppure noi siamo entrambi gli opposti: nella vita come in psicoterapia siamo chiamati a riunirli. E soprattutto possiamo esserlo in un modo speciale, per cui ciascuno in questa vita è chiamato a trovare il proprio.

(nella foto: Ernst Haeckel, Acanthophracta, Radiolaria, 1862)

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