Dove nascono le psicopatologie?

C’è stato un tempo in cui i disturbi mentali non esistevano affatto. Gli esseri umani vivevano senza considerare come malattie le manifestazioni della propria psiche. La psichiatria era tutta rappresentata nei miti. I temi erano le speranze, le pene, le delusioni, gli inganni e le trasformazioni cui dèi e uomini andavano incontro. Sia gli uni che gli altri erano soggetti all’errore: gli dèi si mostravano fallibili, irascibili, capricciosi e imprevedibili proprio come qualsiasi essere umano, e come loro erano anche dediti all’amore e alla ricerca del piacere. Ognuno di essi rappresentava e spiegava le energie della psiche umana. Perciò un tempo non esistevano né la psichiatria né la psicopatologia, perché l’uomo non ne aveva bisogno e viveva secondo natura: le energie della psiche avevano modo di essere agite e vissute con dignità, e avevano egualmente diritto di esistere al pari di quelle degli animali o dei fenomeni metereologici e naturali. Ciò accadeva prima che il concetto arbitrario di ciò che è bene, sano e divino, e di ciò che è male, malattia e infernale, iniziasse a dividere il mondo e l’uomo stesso, iniziando a farlo soffrire.

Dalla sua prima edizione del 1952, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) è oggi arrivato alla sua quinta revisione (APA, 2013). Poiché continuano a svilupparsi disturbi sempre nuovi e complessi, è stato necessario negli anni aggiornarlo e modificarlo per introdurre nuove definizioni di quelli che oggi vengono considerati disturbi mentali, ma che un tempo rientravano nelle turbe normali della vita dell’uomo. Pensate che l’ultima edizione del DSM classifica un numero di disturbi mentali pari a tre volte quello della prima edizione. Cos’è successo negli ultimi anni? Per capirlo, dobbiamo fare un ulteriore salto all’indietro, ovvero alla nascita del pensiero logico o scientifico, nonché della ragione.

Come spiegò Carl Gustav Jung, esistono due forme del pensare: il pensiero indirizzato o logico (scientifico), e il pensare per associazioni. In quest’ultimo modo pensava perlopiù l’uomo antico, che usava il lavoro della fantasia e la constatazione come unica certezza per attenersi ai fatti, oltre che per apprenderli e spiegarli; il suo linguaggio era quello dell’inconscio.

Il pensiero logico pensa invece la realtà in ordine di immagini che ad essa si adattano in un ordine sequenziale rigorosamente di causa-effetto. Questo ha dato origine al linguaggio parlato, che è la materia con la quale pensiamo la realtà, e che James Hillman fa una via come altre dell’immaginazione, tramite l’etimologia, ovvero le immagini archetipiche dalle quali nasce una parola.

Secondo Nietzsche, la ragione fu inventata da Socrate e successivamente applicata da Platone in poi per mettere ordine, illudendosi che con essa si potesse uscire dalla decadenza dell’esistenza: il pensiero scientifico nasce infatti per predire, ed evitare dolore e morte. La ragione stessa è la causa del nostro falsificare le percezioni dei sensi. Come scrive Venicio Perilli ne “Il linguaggio della Psiche”, dalla ragione deriva il mito della causalità e della tranquillità, perché la conoscenza “certa” per causa-effetto, data dal metodo scientifico, ha il fine di soddisfare e nutrire la psiche di tranquillità, o almeno quella parte di essa che intende tenere il mondo sotto controllo. Inverosimilmente accade tuttavia che lo stesso metodo scientifico sia il meno “certo” di tutti i modi di pensare, in quanto per predire un fenomeno si fonda sulla falsificazione dell’ipotesi nulla, ovvero non constata nulla di vero se non che la probabilità statistica che tutte le altre ipotesi considerate “non vere” non si verifichino. Il tutto misurato in un ridotto campione statistico e all’interno di controllatissime condizioni sperimentali la cui variabilità è ben poca cosa di fronte alle infinite variabili e possibilità delle situazioni naturali.

Con Socrate fu fondato il concetto (“cum-capio”), che comprende, controlla e domina la realtà. Con la nascita del concetto fu fondata la logica, che, tramite Platone e Aristotele, definisce i principi di identità e di non-contraddizione del concetto, con cui furono anche costruiti i sistemi etici e religiosi monoteistici. Questi poi prevalsero su quelli politeistici dei miti, ponendo la dicotomia tra il bene, divino, e il male, diverso e demoniaco, nonché il pensiero scientifico, che distingue il vero dal falso, la salute dalla malattia, ecc., determinando una vera e propria scissione psicologica ed esistenziale.

Ma nonostante tutta questa materializzazione, ancora oggi si considera la conoscenza come un mondo a sé, con cui il cervello riesce ad entrare in contatto aldilà della ragione. Scienziati come Penrose e Whitehead parlano platonicamente dei concetti matematici come di un mondo di idee assolute e verità eterne. Altri come Hawking vedono le teorie fisiche come modelli da noi costruiti, e non ha senso che essi corrispondano alla realtà, basta che rendano possibili delle previsioni osservative. Altri ancora, come Husserl e Galimberti, affermano che la scienza è pur sempre un progetto ideato dall’uomo, in linea con quanto già osservato da Nietzsche e da Jung. La conoscenza materiale della stessa sostanza psichica pensante, nonché di ciò che chiamiamo Anima, è quindi (almeno per adesso) impossibile.

Ma cos’è l’Anima, e come possiamo conoscerla? Anima è tutto ciò che interessa la nostra esistenza ma non è materializzabile. James Hillman ne “Il Codice dell’Anima” ci dice che la sua realtà sono le immagini della psiche, e che le immagini sono quei “daimones” o démoni o divinità antiche che appartengono al regno intermedio, alla terra di mezzo, all’aldilà, al mondo dei sogni e della fantasía, al metaxy di Platone o al Mundus Imaginalis di Corbin. Hillman dice che le immagini appaiono nella nostra psiche perché sono il linguaggio dell’anima e per questo vogliono essere da noi ascoltate. È nell’ascoltare le immagini che la psiche crea, come i sogni o le fantasíe, che noi possiamo riconoscere l’oggettività psichica, la realtà dell’anima. Conoscere le immagini significa “conosci te stesso”, la massima religiosa greca antica iscritta nel tempio di Apollo a Delfi che Jung ha poi ripreso e messo al centro del processo di individuazione nel lavoro psicoanalitico.

Seppur fondamentale, l’Anima a un certo punto è sparita dalla nostra cultura ufficiale, e quindi anche dal nostro modo di vivere e pensare, e fu per questo che nacquero le psicopatologie: letteralmente, dal greco psyche + pathos + logos = il “discorso sulle malattie dell’anima”. L’Anima e le sue manifestazioni furono a un certo punto considerate malattie.

Fu Cartesio per primo a porre l’Io come parte centrale e sostitutiva dell’anima. Mentre per il mondo politeista greco-romano erano più anime (tante quante le divinità) a gestire l’individuo e la società, per il mondo cristiano l’anima assunse invece una valenza monoteistica: l’anima dell’uomo venne considerata nelle mani di un unico Dio, e il suo presunto destino in balìa di due forze, il bene (Dio) e il male (il diavolo). Da Cartesio in poi il bene venne quindi identificato con la ragione, e il male con l’anima, che fu considerata alla stregua di un demone maligno e tentatore. Il “cogito ergo sum” cartesiano pose un Io razionale che tolse diritto di esistenza all’anima. L’individuo stesso fu identificato con l’Io, che attraverso la certezza del suo “cogito”, escluse l’incertezza dell’anima, che venne assimilata anch’essa al pensiero dell’Io.

Il concetto di coscienza prevalse su quello di anima, che venne ridotta a coscienza, e poi con Kant, Fichte ed Hegel l’anima muore nella cultura occidentale, o puo’ esprimersi solamente come follìa e patologia.

Successivamente, la psicoanalisi di Freud reintegra l’anima con la “scoperta” dell’inconscio, e Jung la libera dalla sua patologizzazione, restituendole tutte le sue valenze nelle immagini. Queste infatti non sono né sane né malate, né buone e né cattive: gli dèi, come immagini, si presentano (dice Hillman) nella malattia tendendo al soddisfacimento della loro forza energetica e alla quiete, all’equilibrio della loro totalità. Per Jung e Hillman, quindi, negli uomini moderni gli déi si sono trasformati nelle malattie mentali: per non riconoscerli, siamo posseduti dai nostri contenuti psichici autonomi.

Le espressioni e le immagini dell’Anima continuano a esistere nell’essenza ontologica ed esistenziale, anche se non riconosciute dall’Io, che le misura e si precipita a diagnosticarle, ad etichettarle coi sistemi nosografici (come il DSM) e a tentare di guarirle e cancellarle, come fa anche con le somatizzazioni dei sintomi del corpo. Tuttavia invece, secondo Nietzsche come anche Jung e Hillman, poiché il pensare è rappresentazione ovvero immagine, per curare il paziente si dovrebbero peraltro destrutturare continuamente i falsi immaginari dell’Io razionale. Nonostante l’avvento della psicoanalisi, che finalmemte riattribuisce l’origine dei processi psichici alla “psiche” (anima), le scuole discendenti continuano a considerare l’eziologia materialistica del cervello e del comportamento come base di tutti i vissuti emotivi e i processi di pensiero. Ciò accade perché né medici né psichiatri e né neurologi hanno alcuna preparazione filosofica ma solo scientifica, e si continua a credere che le malattie mentali siano malattie del cervello, cioè del corpo, e quindi curabili allo stesso modo. Mentre invece già da Breuer e il famoso caso di Anna O. ebbe inizio la psicoterapia come “cura tramite la parola”, passando poi per Jung, che dimostrò che “la malattia di cui soffre il paziente è nella psiche e le sue immagini o rappresentazioni”.

Le stesse malattie psichiche (dice Hillman) non sono altro che immaginari. Etichettando un paziente, ad esempio, come depresso o fobico o borderline, egli non farà altro che immaginarcisi e diventarlo davvero, ritrovando tutti i sintomi che confermano quella diagnosi nel suo comportamento. Le diagnosi, la psicopatologia stessa, sono l’origine della malattia, secondo Hillman. Qui invece la psicoterapia analitica archetipica si pone non di sovradeterminare gli immaginari che porta il paziente con quelli arbitrari dei formulari e delle teorie di qualche professore. Piuttosto, mira alla comprensione delle immagini diurne e oniriche del paziente, con l’ausilio del suo racconto e della loro amplificazione. In questo modo è possibile ritornare alle immagini fondamentali della sua psiche, e a ridare a quest’ultima la dignità che gli spetta ascoltando il suo linguaggio.

Le immagini della psiche sono il linguaggio dell’anima che giunge per dirci qualcosa di importante su di noi e la nostra vita. Esse vanno quindi guardate e riguardate nel loro significato, vanno lette e ascoltate insieme al paziente. Perché esse continueranno in qualche modo a riaffiorare fino a che il messaggio che portano non sarà coscientemente elaborato, e il bisogno dell’anima soddisfatto.

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