Adolescenti e genitori: cosa possono fare insieme

Ho deciso di scrivere un articolo di psicologia dell’adolescenza dopo aver ascoltato l’ennesimo genitore con le lacrime agli occhi lamentarsi del proprio figlio: “E’ un ingrato, ha avuto tutto. Alla sua età io non avevo niente. Gli ho dato tutto per non farlo soffrire, ed ora è così che sono ripagato”. Come ripeterò sempre, il punto importante di un conflitto non è mai chi ha ragione o chi ha torto: tra genitore e figlio, poi, ancor meno. Un diverbio rappresenta proprio l’incapacità di giungere insieme a una soluzione del problema attraverso la consueta modalità di comunicazione, determinata da un incolmabile divario tra due punti di vista differenti. Tra figlio e genitore c’è il divario di una generazione, e c’è sempre più una completa incomprensione e la mancanza di veri valori. Anche dalla parte dei genitori. Ciò che accade è che il giovane da una parte soffre inutilmente i mali dell’adolescenza rifiutando l’aiuto del genitore ritenuto per lui inadatto, e dall’altra il genitore soffre anche lui inutilmente, passando notti insonni nella paura di perdere un figlio per la strada. Ciò che figli e genitori possono fare per convivere felici, è una cosa sola: smettere di accusarsi l’un l’altro, e imparare a comunicare in un nuovo modo. Quale?

Ne “L’ospite inquietante: il nichilismo e i giovani”, Umberto Galimberti chiede: “Dispongono ancora i nostri giovani di una psiche capace di elaborare i conflitti e quindi, grazie a questa elaborazione, di trattenersi dal gesto? Esiste nella loro cultura e nelle loro pratiche di vita un’educazione emotiva che consenta loro di mettere in contatto e quindi di conoscere i loro sentimenti, le loro pulsioni, la qualità della loro sessualità e i moti della loro aggressività? “. Galimberti pone al centro del problema la mancanza della cosiddetta “educazione emotiva”, ovvero l’educazione empatica dei sentimenti, delle emozioni, degli entusiasmi, delle paure. Sia i giovani che i genitori oggi non sanno più comunicarli. Parlano di tutto: della scuola, del lavoro, dei soldi, dei viaggi, dei progetti e degli obiettivi presenti o mancati, di come dovrebbe essere un adolescente e di come dovrebbe essere un genitore, ma non parlano mai di quello che provano, di come sono stati in una certa situazione, di ciò che più li rende felici, di ciò che più li rende tristi.

Viviamo in un periodo di sovrabbondanza di stimoli, apriamo i social o la tv e tutti sono pronti a darci un modello sempre diverso, a dirci una verità sempre nuova, ad essere migliori rispetto a noi. In questo clima sempre incerto, dove anche una notizia letta su un giornale o una spiegazione trovata su Google puo’ comunque essere smentita o falsificata, si diffondono i segnali di una grande indifferenza emotiva per effetto della quale non si ha più risonanza emozionale di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono. L’educazione di oggi sembra essere quella al non vedere e al passare avanti. C’è un generale dinisteresse sia dall’una che dall’altra parte: da un lato i genitori hanno visto il fallimento delle istituzioni della loro epoca, quali erano il matrimonio, la famiglia, l’amore, il lavoro fisso, l’educazione, lo stato, la religione e così via, sono perciò disorientati e insicuri in un mondo che è cambiato troppo in fretta, non sono quindi più predisposti a trasmettere gli strumenti adeguati alla maturazione dell’emotività nei figli. Dall’altra parte gli adolescenti oggi non riescono ad avvertire la necessità di una educazione ai sentimenti, anzi viene oramai lasciata al caso in un mondo dove il modello fornito è quello che vince chi ha soldi e freddezza, non di certo emozioni.

Le nuove generazioni sono quindi stracolme di ragazzi con mille “contatti” ma profondamente soli, impreparati di fronte alla vita, secondo Galimberti perché “privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno capaci sì di parlare, ma non di ascoltare e di risolvere i conflitti, di cooperare”. Galimberti parla di “agiti in terza persona”: gesti impersonali, che non appartengono ai giovani ma che essi mettono in atto nel tentativo di esprimersi, e lo fanno a volte con svilimento e depressione, a volte con rabbia, ribellione, aggressività, perche nessuno ha fornito loro gli strumenti coerenti per affrontare le delicate fasi dell’adolescenza. L’impersonalità delle azioni si traduce in un inutile tentativo di compiacere agli altri per essere amati ed accettati, e poco vale se così viene meno l’essere se stessi. L’alfabetizzazione emotiva è quindi il lavoro che lo psicologo puo’ fare insieme al giovane e al genitore, per stimolarli a una comunicazione più efficace e a una reciproca intesa ed espressione.

Ma perché il giovane deve patire quello che dovrebbe essere un periodo pieno di scoperte come l’amore, e di traguardi come l’ingresso nel mondo adulto? Perché i giovani si sentono spinti ad agire in modo irresponsabile, fino a mettere a repentaglio la propria vita o a desiderare di morire? E perché i genitori a loro volta devono soffrire, e d’improvviso scoprire che il loro figlio non è quello che avrebbero desiderato? Per capirlo dobbiamo capire meglio cos’è l’adolescenza e cosa è stata per tutti, sia figli che genitori.

Non più bambini, ma non ancora adulti, dopo i 12 anni passiamo in quella “terra di mezzo” che è l’adolescenza. Là attendono una serie di prove fondamentali: il corpo che cambia, la scoperta dell’amore e del sesso, la conquista dell’autonomia, il rapporto con le regole e l’autorità. E soprattutto, la ricerca della propria identità e la scelta di un percorso di vita.

Nel mondo antico, come anche oggi nelle aree del mondo non industrializzate, l’adolescenza come età non esiste. Le innovazioni apportate dalla tecnologia al mondo del lavoro e il crescente benessere economico che ha caratterizzato i paesi occidentali negli ultimi due secoli sono i fattori che più hanno consentito l’emergere di questa “terra di mezzo” tra infanzia ed età adulta. Oggi moltissimi giovani continuano a studiare oltre i vent’anni, posticipano a tempo indeterminato le responsabilità della famiglia, dedicano gli anni giovanili alla formazione personale senza l’assillo di trovare un lavoro, e quando vogliono lavorare, sono condannati a vagare tra un impiego e un altro scartando le attività lavorative che non sono conformi alle loro sempre più incerte aspettative. L’adolescenza non smette più di dilatarsi, e si sta consolidando una nuova età, la post-adolescenza, in cui convergono quei giovani adulti che continuano ad abitare nella casa dei genitori e a dipendere economicamente da essi, senza più essere motivati al lavoro né alla formazione (sono detti “neet”, dall’inglese “Not in Education, Employment or Training”).

Prima della fine del ‘700, a scandire l’uscita dall’infanzia c’era soltanto la pubertà, che è un evento biologico (la comparsa delle mestruazioni nella donna e della produzione di sperma nell’uomo). Insieme ad essa, l’entrata nel mondo adulto era sancita da alcuni riti di passaggio e iniziazione, spesso praticati collettivamente e che ad oggi sono conservati nei miti, nelle favole, nei racconti e nei film. A tutti piacciono, soprattutto ai giovani, le storie di ragazzi qualunque che improvvisamente vengono catapultati in situazioni pericolose dove devono superare prove, acquisire capacità e poteri o uccidere mostri. A volte gli eroi delle storie sono giovani adulti, che analogamente rappresentano colui che deve farsi strada, tra pericoli e difficoltà, in un tortuoso cammino che condurrà l’eroe all’agognata ricompensa, spesso rappresentata da un tesoro o una principessa.

Si tratta del percorso di crescita che ognuno di noi si trova ad affrontare, e gli elementi che lo caratterizzano sono gli stessi che, seppur celati, ritroviamo nei racconti eroici di tutte le mitologie. Tali elementi sono ancora oggi ben visibili nei rituali e nelle cerimonie di quelle tribù primitive dove la dimensione collettiva della psiche umana si amalgama fino a confondersi con il vivere quotidiano. Secondo Joseph Campbell (come scrive ne “L’eroe dai mille volti”), l’avventura dell’eroe segue sempre la medesima traccia: la separazione dal mondo, la penetrazione sino a qualche fonte di potere, e il ritorno apportatore di vita.

L’inizio della parabola eroica è segnata dalla separazione o distacco, come la chiama Arnold J. Toynbee: è il momento in cui avviene un trasferimento dell’interesse dal mondo esteriore a quello interiore, dal macrocosmo al microcosmo, un ingresso nel regno inconscio infantile, costellato di demoni ed eroi, che è dentro ciascuno di noi. Qui, dando battaglia ai demoni infantili, ha luogo l’iniziazione, la trasfigurazione, che altro non è che l’esperienza diretta e l’assimilazione di quelle che Jung definisce immagini archetipiche. Gli archetipi da scoprire e assimilare sono precisamente quelli che hanno ispirato, durante tutti i secoli della cultura umana, le immagini fondamentali della mitologia, dei riti e delle visioni. L’eroe quindi è colui che supera la dimensione individuale del sogno per giungere a quella collettiva ed universalmente condivisa. Si conclude la parabola eroica con il ritorno tra gli uomini dell’eroe che, trasfigurato, è pronto a svelare il mistero del rinnovamento della vita. L’adolescente è metaforicamente rappresentato come un eroe, un Puer archetipico, che è chiamato a lottare per dimostrare il suo coraggio e il suo valore. Un valore che il giovane eroe, a sua volta, puo’ ritrovare nei valori che egli acquisisce dalla natura, dagli animali, nonché dai personaggi della storia che lo aiutano come guide e maestri da un lato, e che lo sfidano come avversari e competitori dall’altro, mettendo alla prova il suo carattere e spingendo il giovane a far propri quei valori verso il suo destino e secondo la sua vocazione.

Le prove che il giovane eroe deve affrontare nelle storie mitologiche equivalgono metaforicamente ai “compiti” del lavoro psicologico che egli si trova ad affrontare nell’adolescenza, e che gli permetteranno di entrare nell’età adulta. Un primo compito consiste nel rapportarsi a un corpo che cambia e assume forme e “poteri” molto diversi da quelli infantili, percorso da flussi ormonali che modificano l’umore, gli interessi e lo stile di vita. Pensate ai protagonisti dei film di oggi che scoprono di avere dei superpoteri, ma che non sanno ancora come usarli e gestirli per far bene agli altri e a se stessi. Nell’infanzia, i padroni del corpo del bambino sono i genitori. Ora invece grava sul ragazzo il compito di integrare i nuovi impulsi all’immagine di un corpo dalle forme sempre più adulte. Un ragazzo che si sente in sintonia con il proprio corpo è soddisfatto dei cambiamenti in corso, mentre chi teme di essere brutto o inadeguato, vive una profonda insicurezza e ha paura dei giudizi degli altri. Molti altri non si sentono nemmeno autorizzati a crescere: per molte ragazze anoressiche il rifiuto del cibo non è solo una moda ma anche e soprattutto un rifiuto delle volontà dei genitori e il bisogno di controllare il proprio corpo, la cui crescita viene a sovvertire un equilibrio col mondo infantile circostante che si credeva immutabile. Per altri si verifica una scissione tra l’io e il corpo, per cui il corpo viene ignorato e lo si nasconde al proprio sguardo e a quello degli altri. L’adolescente, come l’eroe nelle storie, deve poter imparare a usare il proprio corpo, deve essere portato ad accettarlo senza criticarlo, ma aiutandolo a valorizzarlo.

Mentre il corpo si trasforma, gli adolescenti si innamorano e per la prima volta devono cercare (e con essi i genitori) di far coesistere la dimensione biologico-sessuale con quella emotiva, affettiva e relazionale. Nelle prime storie d’amore pero’ questa sintesi non è raggiunta. La “cotta” puo’ nascere da una frase scritta sui social, da un gesto o da una piccola affinità, un atteggiamento sexy o anche perché lui/lei è popolare tra gli amici. L’amore adolescenziale esprime soprattutto il bisogno di conferme, di sentirsi desiderati, di esistere. Se mi amano, esisto. Così quando la storia finisce, ci puo’ essere una crisi di identità. Essere lasciati o rifiutati significa fare i conti con la perdita e il dolore, inevitavili nella vita, ma verso i quali il giovane non è preparato. Qui il genitore puo’ aiutarlo a trarre il giusto insegnamento: invece di scoraggiarlo o colpevolizzarlo, come guida per la vita il genitore dovrebbe invece farsi buon esempio di cui anche le tragedie che sembrano irreparabili possono essere superate, se si capisce che l’amore è presente in ogni tipo di rapporto e in ogni cosa buona che la vita puo’ offrire. Amici, fratelli, parenti, insegnanti, animali domestici sono tutti fonte di amore: i giovani devono apprendere che è sbagliato e riduttivo lasciare tutto per una sola persona, poiché significa emarginarsi e rischiare il tracollo e la depressione.

Collegato alla presa di possesso del nuovo corpo e alla scoperta dell’altro, c’è il lavoro che un adolescente deve fare sulla propria identità. In un passato ormai lontano, l’identità era data alla nascita dalla condizione sociale e dal genere maschile o femminile, nonché dai doveri nei confronti della famiglia, della casta, della tribù. Nelle società odierne individualiste, invece, ognuno ha il compito e la responsabilità di conoscere se stesso, appropriarsi della propria sessualità, capire che cosa vuole o intende realizzare nella vita. Soltanto se sappiamo chi siamo nel mondo possiamo poi decidere a cosa aspirare, quali ruoli assumere, come relazionarci agli altri. In un articolo che ho precedentemente pubblicato in questo blog, ho affrontato il tema della ricerca del senso della propria vita, e di come fare per capire qual è il proprio destino e la propria vocazione. Qui mi preme dire che molti comportamenti adolescenziali a rischio, come alcool, droga, sfide, giochi pericolosi ecc., sono legati al naturale bisogno giovanile di rischiare e di superare quelle prove, come detto sopra, in cui il giovane deve dimostrare il proprio valore a se stesso e agli altri, e ottenere considerazione, rispetto e autostima. I cambiamenti che si verificano nel corpo e nella psiche portano i ragazzi a confrontarsi continuamente sia col mondo esterno sia con quello interiore, a testarne i limiti, a verificare la consistenza dei confini tra il dentro e il fuori tra l’obbedienza e la trasgressione. Meno la realtà esterna offre limiti rassicuranti, significati e obiettivi che rendano questi limiti sopportabili, meno il giovane si sente sicuro nello spazio che deve esplorare e più deve mettersi alla prova e “lavorare” autonomamente per costruirseli. Col rischio, ovviamente, di spingersi troppo oltre. Se un ragazzo non riesce a dare un senso alla propria esistenza e a capire chi è e chi puo’ diventare, puo’ anche, per sentirsi esistere, provare tutte le devianze possibili. Cosa puo’ fare il genitore al riguardo?

Il genitore deve anzitutto accettare l’idea che il suo bambino sta diventando un adulto come lui, autonomo e autosufficiente. Deve smettere di proiettare le proprie insicurezze, i propri fallimenti e sofferenze adolescenziali sul figlio, perché il figlio è un essere diverso, cresciuto in un altro contesto, con un altro carattere e altre vocazioni. Troppo spesso sento dire “non voglio che mio figlio ripeta i miei stessi errori, lui deve poter fare ciò che io non ho potuto”, oppure “non voglio che mia figlia debba passare ciò che io ho passato”. In questi casi, è chiaro che c’è un genitore che vuole mantenere col figlio un rapporto fusionale, in cui il figlio non puo’ deludere i sogni irrealizzati del genitore. Il figlio deve poter invece rinunciare al bozzolo familiare e avventurarsi verso nuovi legami sentimentali, nuove passioni e ruoli sociali. Questo compito psicologico deve essere agevolato dai familiari e anche dalla società. Attenzione, perché qui non si tratta di lasciare i propri figli completamente liberi di fare, finendo per disinteressarsi delle loro attività e delle loro esperienze. Troppo spesso sento anche dire un’altra frase: “Qualsiasi cosa farà mio figlio, per me andrà bene lo stesso, l’importante è che sia felice”. Questa posizione “non schierata” del genitore, opposta alla precedente, è infatti altrettanto letale per il suo sviluppo. I genitori devono essere degli esempi per i loro figli, delle guide. Gli adolescenti si aspettano, come suddetto, di trovare nel proprio melieu familiare e sociale dei limiti rassicuranti, valori significati e obiettivi che contengano la loro naturale esuberanza e che funzionino da terreno di prova su cui confrontarsi. Oggi, invece, sempre più i genitori tendono ad abbandonarli a se stessi, credendo così di fare loro dono della libertà che essi avevano agognato nella loro adolescenza, e invece così condannandoli all’immaturità e alla solitudine esistenziale.

E’ quindi normale che in una prima fase un ragazzo faccia delle “prove di autonomia”, ondeggi tra il bisogno di indipendenza e di amore e protezione; man mano però impara ad autodirigersi, a contare di più su se stesso, a dipendere meno dai genitori. Questi devono accettare la loro evoluzione e non devono cercare, con ricatti emotivi, di tenerli legati a sé. Ciò non significa assolutamente che debbano disinteressarsi o abbandonarli, tutt’altro: in un mondo complesso e pieno di insidie come quello attuale, è importante che i ragazzi abbiano degli adulti di riferimento disponibili al dialogo, al confronto e, se necessario, al litigio costruttivo. I ragazzi hanno bisogno di adulti che sappiano spiegare senza mettersi in cattedra, contrapporsi senza umiliare, aiutare senza creare dipendenza. Devono imparare a comunicare con le loro gioie e i loro disagi cone loro, devono essere emotivamente alfabetizzati, e non semplicemente rifugiarsi nella più facile patologizzazione del trauma infantile per dare la colpa ai genitori di ogni loro disagio. E gli adulti non devono lasciarsi mettere in crisi da critiche e attacchi, ma capire che i ragazzi stanno facendo dei tentativi per collocarsi nel mondo, delle “prove” che eroicamente devono affrontare per capire sin dove possono spingersi, come i genitori stessi hanno dovuto fare da adolescenti. Ciò che li ferisce davvero, tutti i ragazzi, è l’indifferenza, del genitore che rinuncia a comunicare le proprie emozioni e a cercare di capire quelle del figlio. Con il tempo, essa provoca una frattura sempre più difficile da colmare, e i buoni maestri che i ragazzi cercavano in essi, si trasformeranno in estranei ingombranti con cui convivere in una difficile vita da post-adolescenti.

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