Io sono la mia malattia

Avere una malattia neurodegenerativa come il glaucoma è curioso per me che ho lavorato molti anni proprio nella ricerca sulle malattie neurodegenerative e sul dolore neuropatico. Per me è un segno dell’esistenza del destino, e del fatto che quando nasciamo, noi possiamo avere già il sentore di quella che sarà la nostra condizione esistenziale. Ed io, da sempre, ho saputo che un giorno mi sarebbe costato caro poter vedere la natura nel suo splendore, il sorriso delle persone, le semplici immagini del mondo in cui vivevo. Forse è proprio per questo che l’esperienza estetica della visione delle cose che abbiamo nel mondo ha assunto per me un ruolo centrale in ogni esperienza: perché sin da bambino ne conoscevo già l’immenso valore, qualcosa che chi non perderà mai la vista non potrà mai capire appieno.

La scienza, però, oggi non fa altro che convincerti che la malattia sia una specie di maledizione, un male diabolico che va estirpato e cancellato. Da canto loro, i medici non fanno altro che infierire con l’impatto iatrogeno delle loro diagnosi, da una parte, o dall’altra dandoti inutili speranze di salute qualora con essi ti accanirai terapeuticamente contro il tuo male. Ragion per cui, nel mondo moderno, la nostra vita diventa una lotta continua contro la malattia, e tutto ciò che facciamo – dalla scelta del luogo dove vivere, a quella del nostro lavoro e persino delle vacanze o di dove cenare, il vino, le portate, tutto – nasconde una fuga dalla malattia congenita che dentro di noi da sempre portiamo, ovvero una fuga simbolica dalla necessità di far ammalare e morire il nostro punto di vista eroico sulla nostra vita.

Ma, come dice Hillman, la malattia è espressione dell’anima, ed è una normale condizione di vita. È impensabile e irrazionale credere di poter sfuggire per sempre la malattia, giacché il corpo è l’anima stessa, ed essa patologizza ogni qual volta ci sia da fare qualcosa che non capiamo, o che non vogliamo capire. La malattia, qualsiasi malattia, è un compito che l’anima ci impone per riconoscere chi davvero siamo e chi dobbiamo diventare. Ed è proprio nei suoi sintomi che noi possiamo riconoscere il nostro carattere. Accanirsi contro di essa od ossessionarsi temendola ogni momento sono altre forme di malattia, quell’ipocondria della nostra ragione che oggi affligge ogni essere umano che ha dimenticato cosa significa vivere a contatto con la propria natura. E questo, ahimé, è proprio il risultato della scienza, che crede che l’essere umano possa tutto nella vita, anche sconfiggere la morte. Questa malattia del nostro io eroico inflazionato ha una sola cura: la morte stessa del nostro punto di vista eroico sulla nostra stessa natura patologica. Allora vedi le persone intorno a te che un giorno, all’aggravarsi improvviso della loro malattia e alla perdita della loro funzione, quando capiscono che non potranno recuperarla, nel migliore dei casi iniziano a dannarsi e a lamentarsi di continuo, nel peggiore invece cadono in una profonda depressione che non li abbandonerà più, in molti casi portandoli al suicidio.

Nel mio caso, non so di preciso quando ho smesso di avere paura della mia morte, forse quando ero piccolo e per altri versi ci sono stato vicino. Non so di preciso nemmeno quando mi sono reso conto che, uscendo dall’ospedale e dall’ennesima visita, avevo lasciato lì tutte le mie speranze come per chi entra nell’Ade e sa che non potrà più uscirne. Di una cosa soltanto sono certo: che sin da piccolo mi sono sempre sentito come un alieno rispetto la vita che farebbero tutti e un personaggio del mio Ade quotidiano, e avevo la consapevolezza che non avrei potuto sfuggire la mia natura, ma che invece avrei potuto accettarla e imparare a capirla e ad usarla. Ciò mi ha risparmiato tante brutte crisi, pianti ed inutili eroismi distruttivi.

Ricordo, ad esempio, il giorno che mi accorsi davvero che la mia condizione si era aggravata: era il 2013, vivevo a Barcellona e mentre guidavo la mia macchina, immettendomi in una rotatoria, avevo rallentato guardando a sinistra se qualcuno veniva da quella parte. Inserita la marcia, stavo ripartendo quando d’improvviso mi trovai davanti un ciclista, e feci appena in tempo a inchiodare senza metterlo sotto. Lui mi imprecò “Ma che sei cieco? Ti sei pure fermato per farmi passare!”, e dentro di me ebbi subito chiara la risposta. Ricordo le visite approfondite e le facce dei primi due medici che cercarono di spiegarmi che la realtà così come la vedevo non era proprio quella che avevo davanti ai miei occhi, perché nel corso degli anni il mio cervello si era adattato alla progressiva perdita di due porzioni del campo visivo sinistro. Mentre mi dicevano che avrei dovuto operarmi il prima possibile per praticarmi due fori agli occhi col laser, che l’operazione e il recupero sarebbero stati dolorosissimi perché non avrebbero potuto applicare anestetici agli occhi, e che non avrei più ripreso la vista persa fino a che probabilmente un giorno l’avrei persa del tutto, mi guardavano coi loro occhi seri e fermi, tesi a intercettare ogni mia reazione emotiva, e lì capii che mi stavano dicendo una cosa per loro molto seria e distruttiva.

Avevo 33 anni, e i mesi successivi furono i più brutti di tutta la vita, ma in quel momento non mi venne da battere ciglio: ero assolutamente interessato e non reticente alla notizia, perché per me fu come scoprire il vero sguardo della mia vera faccia, nonché il senso che aveva il modo in cui io per natura mi ritrovavo già da piccolo a vedere il mondo. Forse per loro l’avevo presa stranamente bene. Ricordo che restando ancora un pò seduto fuori, aspettando che diminuisse la fotofobia indotta dalle gocce oculari per poter tornare a casa, c’era una donna accompagnata dal marito che invece uscì in lacrime dall’ambulatorio mentre lui continuava a fare domande ai medici, incazzato. Poi lui le disse “Non preoccuparti, andrà tutto bene, hanno detto che i farmaci fermeranno il glaucoma e l’operazione ti aiuterà a mantenere la vista: sconfiggeremo questa malattia”.

Tempo dopo ebbi chiaro che nessuna malattia viene mai davvero sconfitta, perché l’anima è invincibile e la psiche indistruttibile, e accanirsi contro di essa non può far altro che portarti a vivere nella speranza di un tipo di vita che comunque non ci è mai appartenuta, quella senza il dolore e la morte. Semmai, è l’anima stessa che cura la sua malattia, ma lo farà soltanto se noi accettiamo di svolgere la parte che in essa abbiamo.

Nelle settimane successive all’iridectomia, mi ritrovai solo nella mia casa. Avevo soltanto la compagnia del mio cane Kira: non c’èra nessun altro in quel momento che capisse e comprendesse lo stato di dolore e bisogno in cui versavo, nessuno a cui interessasse veramente aiutarmi, o che a me interessasse aver vicino. Ero quasi completamente cieco perché avevo un fuoco costantemente accesso negli occhi, e come mille spilli conficcati. La testa mi scoppiava e presto anche lo stomaco andò in fiamme per i forti antinfiammatori. Arrivai a desiderare la morte per liberarmi da quell’insostenibile dolore che non voleva passare in nessun modo. In quello stato, ho come rivisto le immagini più importanti della mia vita, e a un certo punto credetti proprio di essere morto.

In realtà, la mia psiche si stava a me manifestando in tutto il suo immenso potere. Alla fine riuscii a trovare il mio posto in quell’inferno: il fuoco bruciava senza ustionarmi, il dolore degli occhi era sempre più una costante. Vagavo in casa nell’oscurità, con gli occhi bendati e in uno stato dissociato, e la sola motivazione che avevo a trascinarmi fuori era quella che dovevo pensare ai bisogni e all’attenzione che il mio cane mi richiedeva. Mentre Kira mi manteneva attaccato a questo mondo, ho avuto modo di transitare a lungo in quell’altro: rividi i miei nonni, le mie ex fidanzate e le immagini di tutte le persone che avevo conosciuto e non avevo più visto, ma che mi avevano accompagnato finora nel mio viaggio. Quello che passai fu molto più intenso e importante di qualsiasi viaggio sciamanico sperimentato sotto allucinogeni o in qualsiasi altro stato alterato: tornai alla vita quotidiana da iniziato al mondo dell’immaginazione onirica. Un mondo che non era a me nuovo, anzi lo riconobbi come quello da cui in effetti venivo e che io stesso, a un certo punto della mia vita, avevo abbandonato.

Diveniamo ciechi nella salute e nell’inflazione della sua immagine come abbondanza, successo, denaro, tecnologia, modernità ed eterna giovinezza. Diveniamo ciechi alle profondità della nostra anima nell’inflazione della luce come valore assoluto, tutta questa luce che cerchiamo giornalmente come benessere a ogni costo, come autorealizzazione inseguita attraverso l’immagine di ciò che vogliono gli altri, come valorizzazione di sé cercata nel luogo comune e nell’essere in qualche modo impegnati a far qualcosa di visibile e di dicibile, elemosinando un giorno dopo l’altro scampoli di felicità accalcandoci, diceva Pasolini, “come greggi di pecore attorno alle poche biade” di un mondo sempre più cementificato, meccanizzato e informatizzato, a cui l’anima – come la malattia – è stata rimossa poco a poco coi miti artificiali della luce e della modernità, del successo e del denaro. Di tutta questa cecità, purtroppo oggi noi ci accorgiamo solamente quando non possiamo più vedere la tv o le cazzate che pubblicano gli altri sui social, quando persino il medico più futuristico alla fine è costretto a dirci di guardare nella luce naturale e di non usare più schermi retroilluminati perché stressano il nervo ottico che è già degenerato. Ci accorgiamo della nostra imperterrita arroganza quando siamo costretti a disdire appuntamenti e a cambiare i nostri progetti perché d’improvviso ci ritroviamo in attesa di una risposta nella corsia di un pronto soccorso.

Ma è proprio nel buio che, alla fine, noi riscopriamo la nostra luce.

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